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<strong>Journal</strong> <strong>of</strong> <strong>Italian</strong> <strong>Translation</strong><br />
«Bene! » fece lui. Poi, agitò un grosso campanello d’argento,<br />
dicendo: « Ora le mie fedeli clarisse cominceranno a servirci! ».<br />
Infatti, pochi istanti dopo entrarono le clarisse. Due donne dai<br />
capelli corvini, lunghi sulle spalle, che recavano ognuna un vassoio<br />
di metallo dorato (che fosse proprio oro?) colmo di pastasciutta<br />
fumante. Nonostante l’appellativo di «clarisse», riferito alle monache<br />
di Santa Chiara, le due donne indossavano corte tunichette<br />
trasparentissime, sotto le quali erano completamente nude. Così che<br />
lasciavano intravedere, nettissimo, folto e tenebroso, il «bosco<br />
d’amore» che faceva chiazza sotto l’addome. Era la prima volta che<br />
i miei occhi si posavano sull’«angolo fermo di Venere». Talmente<br />
ferino, nelle due ancelle del Vate, che andavano servendo la<br />
pastasciutta sorridenti e disinvolte, da procurarmi non solo stupore,<br />
ma addirittura spavento. Cos’erano quelle macchie? Una malattia?<br />
Due micini neri accovacciati al calduccio? Un segno di lutto insolito?<br />
Quando Suora Pecchia (seppi in seguito che si chiamava così) arrivò<br />
ad empirmi il piatto, i miei occhi le restarono inchiodati sulla selva<br />
del pube. Mentre tutti gli occhi dei commensali erano fissi su di me.<br />
E quelli di mio padre, che oltre ad essere un fervente d’annunziano<br />
era anche un moralista, avevano un’espressione perplessa e severa,<br />
sotto le sopracciglia aggrondate. L’Imaginifico avvertì l’imbarazzo<br />
che il mio impatto infantile con la pelliccia segreta della donna aveva<br />
creato attorno alla tavola. E cercò di deviare in qualche modo la mia<br />
attenzione.<br />
« Hai guardato bene, nostromo giovinetto, i maccheroni la mia<br />
ancella divota t’ha messo nel piatto ?».<br />
« Sì! » mentii, inghiottendo saliva.<br />
«Hai notato la loro foggia singolare, curiosa?».<br />
Guardai il piatto per la prima volta e notai che gli spaghetti<br />
non erano di forma cilindrica, come quelli di casa.<br />
«Mi sembrano... quadrati» balbettai.<br />
«Quasi!» fece il Vate, accarezzandomi i capelli sagomati<br />
all’Umberto. «Questa è la pasta caratteristica dell’Abruzzo, ch’è la<br />
mia terra! E nomata pasta alla chitarra. E sai perché, piccolo marinaio<br />
biondo e bianco ? ».<br />
« No! » bisbigliai.<br />
« Perché un tempo la sfoglia veniva tagliata proprio con le corde<br />
di una chitarra. Al posto della quale venne poi usato un istrumento,<br />
munito di alcuni fili metallici ben tesi. Si dice che l’arnese sia stato<br />
ideato da un ciabattino di Palena, sulle pendici della Maiella,<br />
chiamato Manicone. Questa è la storia di questa pasta abruzzese. La