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Anna Maria Farabbi<br />
(lessemi e sintagmi), accettato, condiviso, tramandato come mezzo<br />
di comunicazione proprio e di una comunità. Qui penso agli infiniti<br />
tappeti volanti di fili d’aria e segni grafici (alfabetici, sillabici,<br />
ideogrammi, pittogrammi) che rappresentano i fonemi singoli o in<br />
gruppi.<br />
Per linguaggio in/tendo tutto ciò che nel non verbale fluisce<br />
significativamente tra una creatura e l’altra. In questa esposizione<br />
del proprio sé all’altro, il gesto, lo sguardo, perfino il respiro, la<br />
tonalità, il ritmo della voce, dell’esclamazione, prima ancora della<br />
polpa e del guscio di ogni parola, diventano ingredienti fondamentali<br />
del dirsi e del darsi.<br />
Nella mia vita, ci sono stati tre straordinari occhielli esistenziali<br />
dentro cui è accaduta e cresciuta l’esperienza della non parola, dentro<br />
cui, malgrado ogni assenza verbale, è scoccata una precisione<br />
ustionante di sintesi e relazione con l’altra creatura. Nomino queste<br />
mie epifanie non in ordine cronologico ma componendole in un arco<br />
ideale:<br />
- Durante il periodo di allattamento e fino a quando mio figlio<br />
Luca non sapeva parlare, riuscivo con lui a creare momenti intensi<br />
di comprensione, pregna, esatta e silenziosa.<br />
- Con la creatura amata riuscendo a fare ponti di<br />
comunicazione, passaggi del proprio corpo e mater/ia, intuizioni<br />
reciproche, tacite complicità, in una velocità vertiginosa, subliminale,<br />
sintetica.<br />
- Durante l’assistenza a malati terminali, negli ultimi mesi<br />
della loro vita. Individui spesso fisiologicamente privati della<br />
possibilità della parola, spr<strong>of</strong>ondati in un tragico mutismo costretto<br />
e irreversibile. Con loro, incredibilmente, è sorta, sgorgata, una<br />
tessitura naturale, un’apertura reciproca di sensorialità viscerale.<br />
Al punto che la parola non risulta necessaria, tanto pulsa<br />
cardiacamente l’intimità.<br />
Considero questi occhielli come dei veri e propri pozzi di acqua<br />
potabile. Ci ritorno e bevo ogni volta in cui mi sento s<strong>of</strong>focata dalla<br />
banalizzazione della chiacchiera, dallo scarto nel malinteso, dalla<br />
spettacolarizzazione o strumentalizzazione della propria capacità<br />
dialettica, dal compiacimento narcistico.<br />
Credo che queste tre esperienze, vissute con frequenza nel corso<br />
del tempo, e sempre confermate, abbiano una matrice fondante: una<br />
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