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Dell'ingegno poetico di Cicerone.pdf - EleA@UniSA

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non sappiamo, in alcun modo, contentarci della forma<br />

morbosa che assunse in <strong>Cicerone</strong>, e che si chiamerebbe<br />

meglio sentimento della fama o vanità; e ci<br />

m araviglia non poco come il P atin, concedendo che<br />

i versi <strong>di</strong> <strong>Cicerone</strong> siano, in massima parte, un<br />

prodotto della v a n ità 1), non si sia accorto <strong>di</strong> fare una<br />

pericolosa concessione. Come accordare, in fatti,<br />

un sentim ento morboso con quel n aif mouvement<br />

de la conscience, <strong>di</strong> cui egli parla poco dopo? U na<br />

forma morbosa sopprime ogni forma norm ale, che<br />

ne sia il sostrato, perchè entram be non potrebbero<br />

coesistere.<br />

Per queste ragioni ci pare che l’opinione preferibile<br />

sia quella del Ribbeck, con le restrizioni, non<br />

prive affatto d ’ im portanza, <strong>di</strong> cui abbiamo <strong>di</strong>scorso.<br />

Ci sia lecito, o ra , toccare brevemente dell’ eie-<br />

»<br />

mento soprannaturale, che è nel componimento.<br />

Nel libro secondo, U rania enumera i segni m aravigliosi,<br />

che gli dèi han dati prim a e durante i tristi<br />

giorni che Roma attraversava. E il Ribbeck, a questo<br />

punto, osserva che <strong>Cicerone</strong> non credeva una parola<br />

<strong>di</strong> questa fantasmagoria puerile, perchè egli stesso,<br />

nel <strong>di</strong>alogo della Divinazione, nega, con fine arguzia<br />

e con mordace scetticismo, il senso profetico dei<br />

segni portentosi descritti nel suo poema, a cui si<br />

riferiva il fratello Quinto. M a, anche qui, ci pare<br />

che il critico tedesco sia andato tropp’oltre. E, in<br />

verità, chi mai potrebbe pretendere da un poeta u n ’esplicita<br />

professione <strong>di</strong> fede per tu tto quanto formi ma-<br />

‘) M. Patin, Op. cit., pag. 427.

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