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quaestio <strong>del</strong> “chi parla per conto di chi?” o <strong>del</strong>la rappresentanza si riproponeva,<br />
essendo <strong>del</strong> resto ins<strong>it</strong>a nel concetto stesso di avanguardia.<br />
Se alla seconda domanda <strong>il</strong> Cae aveva risposto affermando la necess<strong>it</strong>à<br />
di rendere la resistenza più fluida, globale e dig<strong>it</strong>ale, sulla questione riguardante<br />
<strong>il</strong> mo<strong>del</strong>lo organizzativo <strong>il</strong> gruppo notava una serie di ostacoli<br />
materiali. Il più grande consisteva nell’esistenza di un vero e proprio “scisma<br />
tra attivisti e hacker”, dovuto a una divisione sociale <strong>del</strong> lavoro così<br />
pronunciata da produrre, per riflesso, una forte specializzazione dei linguaggi<br />
e quindi un’incomunicab<strong>il</strong><strong>it</strong>à tra soggetti che avrebbero dovuto invece<br />
allearsi. Detto altrimenti, gli hacker e gli attivisti lavorano (o lavoravano,<br />
al tempo <strong>del</strong>la stesura <strong>del</strong> <strong>libro</strong>) in amb<strong>it</strong>i separati, partendo da presupposti<br />
essenzialmente diversi. Mentre i primi spendono la maggior parte<br />
<strong>del</strong> loro tempo nell’aggiornamento tecnico e hanno quindi generalmente<br />
una scarsa preparazione pol<strong>it</strong>ica, i secondi si rifanno a mo<strong>del</strong>li organizzativi<br />
obsoleti e considerano le piazze come <strong>il</strong> principale, se non unico,<br />
spazio di operativ<strong>it</strong>à tattica. Al di là <strong>del</strong>le considerazioni <strong>del</strong> <strong>libro</strong>, l’hacker<br />
guarda alla tecnologia come un bene in sé, da salvaguardare a tutti i costi,<br />
mentre l’attivista la considera innanz<strong>it</strong>utto un mezzo per diffondere istanze<br />
etiche e sociali. Sebbene i due punti di vista non siano necessariamente<br />
in confl<strong>it</strong>to, possono entrarvi fac<strong>il</strong>mente, come vedremo tra breve.<br />
Una collaborazione fondata sull’azione <strong>il</strong>legale era in ogni caso, per<br />
ovvie ragioni, da scartare a priori. Rimaneva però uno spazio tattico per<br />
la cost<strong>it</strong>uzione di cellule formate da artisti, hacker, teorici e avvocati che<br />
sapessero organizzare e leg<strong>it</strong>timare agli occhi <strong>del</strong>l’opinione pubblica le<br />
azioni di disobbedienza civ<strong>il</strong>e elettronica. Azioni che avrebbero spostato<br />
sulle porte dei server quello che, almeno dai tempi di Gandhi, aveva sostato<br />
dinanzi ai palazzi <strong>del</strong> potere: una massa (di corpi prima, di impulsi<br />
elettronici ora) in grado di bloccarne l’accesso o da renderlo estremamente<br />
difficoltoso.<br />
Il Teatro di disturbo elettronico<br />
Nel tratteggiare la nuova configurazione <strong>del</strong> potere <strong>il</strong> Cae aveva notato,<br />
già in Il disturbo elettronico, come al di là <strong>del</strong>la sfera economica, <strong>il</strong> consenso<br />
fosse ancora mantenuto attraverso i meccanismi propri <strong>del</strong>la società<br />
<strong>del</strong>lo spettacolo:<br />
In uno stato di doppia significazione, la società contemporanea dei nomadi<br />
diventa sia un potere diffuso senza locazione, sia una rigida macchina da<br />
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