Tiere furlane 3 - Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
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40 •<br />
dei più diffusi prevede la loro<br />
distinzione in base alla tecnica di<br />
fermentazione che viene defi nita<br />
alta, bassa e spontanea. Le birre<br />
lager (bassa fermentazione)<br />
rappresentano oltre il 90% delle<br />
birre prodotte al mondo, mentre<br />
quelle a fermentazione spontanea,<br />
sia pure quasi trascurabili<br />
quantitativamente, costituiscono<br />
un prodotto molto interessante<br />
e ricchissimo da un punto di<br />
vista organolettico e qualitativo.<br />
Le birre ales (alta fermentazione),<br />
sebbene per quantità<br />
meno importanti delle lager,<br />
sono testimoni delle zone, delle<br />
tradizioni e della cultura dei<br />
paesi in cui vengono prodotte;<br />
tradizioni che spesso affondano<br />
le proprie radici nei secoli e nella<br />
storia anche millenaria di questo<br />
prodotto. Come noto, infatti, fi no<br />
alla metà del XIX secolo, tutte<br />
le birre venivano ottenute con la<br />
tecnica dell’alta fermentazione<br />
che per molti secoli è stato l’unico<br />
sistema utilizzato. Ma se la<br />
fermentazione rappresenta il più<br />
comune sistema di classifi cazione<br />
delle birre per gli esperti e operatori<br />
del settore, di certo non è<br />
quello adottato dalla gran parte<br />
dei consumatori che si limitano a<br />
differenziare le birre solo in base<br />
al loro colore o grado alcolico.<br />
Il mercato italiano offre quindi<br />
oggi una varietà di birre che<br />
sino a non molto tempo fa era<br />
prerogativa solo di paesi a fortissima<br />
tradizione birraria come, ad<br />
esempio, la Germania, il Belgio o<br />
il Regno Unito. Ma se la cultura<br />
storica e sociologica di questi<br />
paesi è permeata dalla birra,<br />
non altrettanto si può dire del<br />
nostro paese, tradizionalmente<br />
legato alla cultura del vino. Ciò<br />
non signifi ca affatto che l’Italia<br />
non abbia un patrimonio storico<br />
di vecchie birrerie che un tempo<br />
disseminavano il nostro territorio.<br />
La differenza sostanziale coi<br />
paesi sopra menzionati risiede<br />
nel fatto che l’Italia, sebbene<br />
assurta a una delle maggiori potenze<br />
industrializzate del mondo,<br />
ha radici storiche e culturali<br />
fortemente rurali e agricole, profondamente<br />
legate ad un mondo<br />
che forse ora non esiste più, ma<br />
che vedeva il vino come prodotto<br />
cardine della produzione della<br />
terra. Non si dimentichi poi che<br />
l’Italia, alternandosi a seconda<br />
delle annate con la Francia,<br />
detiene il primato mondiale di<br />
paese produttore di vino. Alla<br />
luce di queste considerazioni si<br />
può forse comprendere perché,<br />
per il consumatore italiano, la<br />
birra abbia una forte connotazione<br />
“straniera”. Un dato per tutti:<br />
circa il 90% degli italiani identi-<br />
Questa pianta è detta urtiçon in friulano, ma è nota anche col venetismo<br />
bruscandul, e tutti sanno che i teneri germogli primaverili sono utilizzati<br />
in cucina, entrando nella preparazione del litum o in splendidi risotti. È,<br />
attualmente, meno in uso il nome cervêse con cui s’indicava la pianta ma,<br />
soprattutto, i coni fruttiferi. Questi ultimi erano ancora raccolti nei nostri<br />
boschi fi no agli anni Sessanta del secolo scorso per aromatizzare delle<br />
rustiche, ma buone, birre fatte in casa. Ai pochi che ancora sanno di latino<br />
non sarà sfuggito che cervêse discende direttamente da cĕrĕvĭsia che, nella<br />
lingua di Cesare, signifi cava ‘birra’. Con uno dei tanti scivolamenti semantici<br />
la pianta ha preso il nome della bevanda che contribuiva a formare, così<br />
come il colza si chiama vueli ‘olio’. Nel Medio Evo friulano con cerevisia si<br />
intendeva ancora sicuramente la birra, come è attestato da un documento<br />
del 1275 che parla di unam soumam cerevisie; il signifi cato è una ‘soma’,<br />
cioè un carico (animale) di birra.<br />
I lettori di Astérix avranno incontrato la cervoise, che è cervogia nelle<br />
edizioni italiane; il nome, in effetti, è di origine gallica ed è una delle rare<br />
parole celtiche che sono passate nella nostra lingua.<br />
Il nome scientifi co della pianta Humulus lupulus L., coniato da Carlo<br />
Linneo (1707 - 1778), non va confuso col nome in uso presso gli antichi<br />
Romani che la chiamavano lupus salictārius, da tradursi con ‘lupo dei<br />
salici’. Cresceva, e cresce tuttora, in effetti, assieme ai salici, ma perché<br />
lupus? Dovete sapere che, all’epoca, l’urtiçon non era ancora utilizzato<br />
nella fabbricazione della birra, neppure dai Galli, e le piante dal sapore<br />
aggressivamente amaro e, in questo caso anche fortemente astringente,<br />
prendevano il nome di ‘lupo’. Mai sentito parlare dei lupini?<br />
Gli Antichi conoscevano però l’uso culinario dei teneri germogli, tanto è vero<br />
che li chiamavano... asparagus!<br />
Col “lupo” possiamo spiegare il nome italiano luppolo, così come il nome<br />
della specie creato da Linneo. Quanto al genere botanico Humulus pare<br />
che Linneo abbia fatto una piccola forzatura linguistica prendendo il nome<br />
del luppolo da una qualche lingua slava e adattandolo al latino scientifi co;<br />
in sloveno e in croato, in effetti, si dice hmelj, e nomi simili si riscontrano in<br />
ceco e in polacco. Ricordiamo, infi ne, che<br />
il friulano ha il<br />
verbo cerveseâ<br />
‘vaneggiare’,<br />
probabilmente<br />
perché la<br />
cervêse (il<br />
luppolo, non<br />
la birra) veniva<br />
usata contro<br />
l’agitazione nervosa.