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Sessanta (erano gli anni della guerra in Vietnam). Aggiungiamo che è facile<br />

vedere, anche nel modo certamente colloquiale e “non scientifico”<br />

con cui egli li riassume, che quegli interrogativi sono gli stessi con i quali<br />

si è trovata a confrontarsi la storiografia sul nazismo nei cinquanta e<br />

più anni susseguenti alla Seconda guerra mondiale: è stato, il nazismo,<br />

un “incidente” della storia, un’aberrazione, un corpo estraneo nello sviluppo<br />

dell’Occidente contro cui – non a caso – la “democrazia” e il “comunismo”<br />

hanno potuto trovarsi uniti? O non è stato invece un’opzione<br />

del tutto compatibile con alcune premesse della cultura e della storia<br />

occidentali, opzione certo respinta e congiunturalmente sconfitta ma in<br />

qualche modo ancora “legittima”? E collegati con questo interrogativo<br />

se ne presentano altri due: ha avuto il nazismo caratteristiche così marcatamente<br />

“tedesche” o “germaniche” da farne una degenerazione irripetibile<br />

in altri paesi del fenomeno internazionale del fascismo, o è stato<br />

invece l’espressione – certo esasperata – di caratteri tipici di questa corrente<br />

politica? E in conclusione: siamo definitivamente vaccinati contro<br />

il ritorno (sotto varie forme) di un fenomeno del genere, o non possiamo<br />

(dobbiamo) ammettere la possibilità di un suo ritorno?<br />

Bene: Dick, che nel 1964 riteneva quelle domande senza risposta,<br />

nel 1961 e nel 1963 (anni di composizione, rispettivamente, di L’uomo<br />

nell’alto castello e I simulacri) una risposta invece l’aveva data. Non sul<br />

piano storiografico, certo, e neppure sul piano sociale, ma su quello psicologico<br />

(come diceva in quell’intervento). Eppure la dimensione “psicologica”<br />

di Dick è sempre, anche nei suoi romanzi più tardi, declinata<br />

nella psicologia sociale, nella psicologia collettiva (→ capitale/lavoro;<br />

potere; società/individuo). La sua risposta andava inequivocabilmente<br />

contro la tesi dell’eccezionalità, dell’irripetibilità, dell’unicità del nazismo.<br />

Riflettiamo un attimo. Che cosa può significare scrivere un romanzo<br />

ambientato in un presente alternativo in cui l’Asse ha vinto la guerra<br />

e Germania e Giappone si sono spartiti l’America del Nord (L’uomo<br />

nell’alto castello)? Che cosa può significare ipotizzare un futuro in cui<br />

Usa e Germania si fondono negli Usea, il presidente è costantemente un<br />

(simulacro dal nome) tedesco, e la first lady – che apparentemente ha<br />

tutto il potere – chiama Goering con una macchina del tempo per trattare<br />

con lui la consegna di armi in cambio della rinuncia allo sterminio<br />

degli ebrei (I simulacri)? Non può significare che questo: il nazismo è<br />

sempre attuale, sempre in agguato, può contaminare in forme nuove anche<br />

la “democrazia”, perché si basa su una struttura mentale, su un insieme<br />

di possibilità che fanno parte a pieno titolo della “natura umana”,<br />

e questa struttura mentale e queste possibilità sono sempre a disposizio-<br />

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