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Jennings, attraverso i sette oggetti, al recupero della memoria e alla realizzazione<br />

della sua strategia pregressa; ma ha trascurato tutta la ricchezza tematica che<br />

caratterizza questo racconto, a partire dall’incontro/scontro tra potere politico<br />

ed economia e dal conflitto tra individuo e società. (A.C.)<br />

Temi: amnesia/anamnesi; capitale/lavoro; polizia; potere; tecnica; tempo.<br />

Progenie<br />

Titolo originale: Progeny (1954).<br />

Ed Doyle è uno dei tanti terrestri che hanno scelto di andare a vivere nelle colonie,<br />

nel sistema di Proxima; ma nel momento in cui la moglie Janet partorisce il<br />

loro figlio, trova naturale tornare di corsa sulla Terra e disporsi a tutto ciò che i<br />

genitori solitamente fanno con la propria progenie. Nel futuro immaginato da<br />

Dick, però, l’educazione è in mano ai robot, che trovano pericoloso per la salute<br />

mentale e l’equilibrio dei bambini che essi trascorrano i primi diciotto anni con i<br />

genitori. Così il malcapitato Ed se ne torna in colonia, salvo ripresentarsi dopo<br />

nove anni, ormai separato dalla moglie, a trovare il bambino, Peter: cosa che gli<br />

viene concessa, a malincuore, dai robot. L’incontro tra padre e figlio è un manifesto<br />

generazionale che potrebbe andare bene oggi come ieri, quando Dick<br />

scrisse il racconto (era il 1952), o anche domani, quando il futuro da lui preconizzato<br />

avrà finalmente spazio. Il padre domanda al figlio se gli piacerebbe andare<br />

con lui in giro per pianeti, s’informa di come trascorra le giornate, chiede<br />

perché si occupi di biochimica e non faccia altro; e come tutti i genitori si lancia<br />

nell’autobiografismo: “Mio Dio, Pete. Quando io avevo nove anni me ne andavo<br />

a zonzo per la città. A volte andavo a scuola, però in genere stavo all’aperto. Giravo<br />

qua e là. Giocavo, leggevo. Mi infilavo di continuo nello spazioporto. – Ed<br />

Riflettè – Facevo di tutto. A sedici anni sono scappato su Marte. Ci sono rimasto<br />

un po’. Ho lavorato come cameriere. Poi sono passato su Ganimede. Lì non si<br />

batteva chiodo. Niente da fare. Da Ganimede sono passato a Prox. Mi sono pagato<br />

il viaggio lavorando su una grande nave da carico”. Non è il quadro dell’americano<br />

medio che si è fatto da solo, beninteso, ma l’epitome di quel romanzo<br />

di formazione che è la vita condensato in poche righe; o forse la saggezza del padre<br />

nei confronti dell’incomprensibilità del figlio, una tragedia che si ripete da<br />

millenni e a cui Dick non sfugge (e qui gioca la sua esperienza reale, perché suo<br />

padre Edgar si separò dalla famiglia quando lui aveva cinque anni). Senonché<br />

quando Peter si limita a enumerare gli anni luce che separano la Terra dalle colonie,<br />

e tace con un sorriso imbarazzato agli inviti a viaggiare con il padre, nessun<br />

lettore, qualsiasi sia la sua età, stabilirebbe una minima corrente d’empatia con<br />

lui. Sconfitto, Ed se ne torna alle colonie. E suo figlio si consola con i robot, a cui<br />

non manca di far notare che anche suo padre, come tutti gli umani, ha lo stesso<br />

odore delle cavie da laboratorio. Non è difficile constatare come Peter sia lo<br />

stesso Philip, mentre Ed Doyle è l’evidente trasposizione di Edgar Dick, sia nella<br />

forma del padre “vero” sia in quella del padre “surrogato”: un padre che ha vissuto<br />

un’esistenza lavorativa nomadica, che amerebbe occuparsi del figlio e por-<br />

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