leggere il biglietto. Lo sfilai dalle dita gelide e avvertiiun profumo di rosa. Era piegato in quattro parti e loapersi in modo da poterlo leggere:“Il tuo cuore è caldo e generoso / ed io vi vorrei viverein eterno: / mi pare un paradiso favoloso / e fuordi esso tutto è come inferno”.Lo ripiegai riponendolo tra le dita della fanciulla con lacoda di serpente e guardai il ragazzo strisciante negliocchi, suggerendogli che non avevo capito.“Tu mi devi aiutare – mi ripetè, spiegandomi - deviscoprire chi ha ucciso la mia ragazza, e perché”. A unasimile richiesta rimasi sorpreso, benché avessi mille altrimotivi per stupirmi. Del resto mi sentivo partecipe di unsimile mistero. Ancora non ho capito perché sono qui ascrivere questo quaderno. Mi chiedo se qualcuno mai loleggerà, mai ne verrà a conoscenza. E se forse ungiorno, ancorché remoto, trovato, aperto, sfogliato,studiato; che effetto farebbe? Potrebbe sembrare ildiario di un pazzo, gli appunti di un visionario, i pensieridi un ebbro. Chi mai prenderà sul serio questo blocco difogli sconclusionato, e a chi potrebbe interessare unastoria del genere? Povero Telèmaco, ma se scrivendostai meglio, scrivi pure, che, anche se nessuno maileggerà ciò da te scritto, la tua anima ne trarràgiovamento. Nargo, così seppi chiamarsi l’uomo dallacoda di anguilla, mi lasciò solo con questo compitotanto pesante. Strisciò fuori dalla grotta fino ascomparire. Rimasi accanto al corpo di Igria dagli occhichiusi, senza sapere come poter riuscire a risolvere ilmistero. Non sapevo dov’ero, e non sapevo nulla diquella gente: come potevo trovare l’assassino? Eperché dovevo farlo io? Le domande mi assillavanofinquando mi resi conto di essere prigioniero in quellagrotta. C’era qualcuno lì oltre a me? Strepitai, urlai perrichiamare l’attenzione. “Chi disturba il sonno di Anoti?”parlò una voce, e vidi un uomo anguilla venire verso dime. Era un po’ paffuto, dall’aspetto bonario ma severo:era chiaro che l’avevo disturbato e gli dovevo dellescuse. Provavo vergogna e curiosità insieme. Miaccostai chiedendo perdono: “non importa, nonimporta” alzò gli occhi al cielo. Strisciava un po’seccato, io non potei fare altro che stargli dietro. Mivolsi solo per un attimo, giusto per dare un ultimo,commosso, sguardo al corpo di Igria lambito dall’acqua.Entrai nella casa di Anoti, dalle pareti di fangoessiccato. Mi sentivo decisamente a disagio, forseperché ancora non conoscevo i motivi che mi avevanospinto fin lì, e non mi era ben chiara tutta questafaccenda. Anoti m’invitò a sedere a tavola e a mangiarecon lui. Accanto al tavolo, stabile su un tripode, untelevisore diffondeva delle immagini di paesaggisottomarini. Mangiai una specie di crema che sapeva dipesce. Non era buona, ma mi sentivo obbligato afingere che mi piacesse. Mentre ingoiavo quel fluidocommestibile guardavo il padrone di casa che, attento,sedeva avvolto sulla sua coda di anguilla osservando leimmagini televisive. Non mi parlava e, dal canto mio,non me la sentivo di rompere il ghiaccio. Visto che nonpotevo fare altro il mio pensiero volò sul mistero dellamorte di Igria. Forse Anoti poteva aiutarmi, forsesapeva qualcosa. Non lo conoscevo: forse potevaessere pericoloso parlarne subito con lui. Preferiiimmaginare la dinamica dell’accaduto: ma lo sforzo miparve così difficile che ci volle poco per farmi desistere.Finchè apparve sullo schermo il telegiornale, o qualcosadi molto simile. La prima notizia trasmessa fu proprioquella riguardante la morte di Igria: immagini di lei daviva, immagini di lei da morta, la dolorosatestimonianza di Nargo. Poi si parlò delle indagini. Furivelato che la polizia aveva uno schizzo del presuntoomicida. In quel momento la mia curiosità era allestelle, e anche Anoti era come rapito dalle immaginitelevisive. Entrambi aspettavamo di vedere quel volto.Fu mostrato da un ispettore della polizia di quellastrana gente. Era un ritratto a carboncino. E in quelritratto c’era disegnato il mio volto. Ero io. Incredulo,atterrito, mi guardai attorno. Anoti si scansò dopo unbreve sussulto e mi guatò. “C’è un errore” misi le maniavanti, ma capii che ero poco convincente. “Sei statotu” le uniche parole dette dal padrone di casa,pronunciate con certezza e distacco, quasi fosse unmagistrato giudicante. Forse era una trappola ordita daNargo, ma non era plausibile. “Sei stato tu – continuòAnoti – l’hai uccisa quando hai smesso di sognare”.Questa è la sentenza dell’uomo anguilla che ancora mitormenta, e non mi fa riposare. Non riesco a prenderesonno in questo carcere nascosto sotto il fiume. Sonopassati mesi, anni, non so, non so più chi sono. Ormaiho visto meglio e di più il fiume dal basso che dall’alto.Qui, sono qui imprigionato dagli uomini anguilla, perscontare la pena di un reato che non so né perché néquando ho commesso. Che non so né se né come l’hoperpetrato. Chissà se qualcuno leggerà il mio quaderno.Sono rimasto, ancora una volta, solo. Aspetto confiducia e speranza chi mi libererà.Francesco Tiberi — Porto Recanati (MC)BUFFI CORVI, UN POMERIGGIO DI TARDOAUTU<strong>NN</strong>ODifficile capire perché non trovassero mai il tempo ditelefonare. Mario non ci faceva più caso, ma si sa, gliuomini. Eppure Agnese era convinta di aver fatto unbuon lavoro coi suoi due figli.Come ogni mattina da quasi quarantadue anni, Agneseaspettava che nella vecchia moka ossidata risuonasse ilgorgoglio ovattato del caffè prima di chiamare Marioper la colazione. Quasi ottant’anni, questi conservaval’accuratezza nella cura della propria persona che loaveva accompagnato per tutta la vita lavorativa.Quando era uno degli uomini che contavano qualcosa,giù in città.Agnese armeggiava lenta e pensierosa tra i pensili dellacucina mentre egli si radeva, fischiettando un motivodegli anni cinquanta di cui non ricordava più il titolo eserrava a regola d’arte il nodo alla cravatta checambiava quotidianamente.Mario adorava gustare il caffè appena fatto e sfogliarele soffici pagine del giornale, ancora umide diinchiostro, che sua moglie scendeva a comprare ognimattina all’angolo del viale. Nonostante le forzestessero scemando da tempo, si sentiva in dovere diaccudirlo e viziarlo come sempre aveva fatto, dacché sierano uniti in matrimonio.Mario era stato un professionista di buon successo cheaveva provveduto alla famiglia più che dignitosamente.Era fiero di sé e riteneva che la vita potesse essere10<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>A<strong>NN</strong>O</strong> <strong>XIII</strong> – <strong>NN</strong>. 67/68 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2009
colma di bellezza anche da vecchi. Terminata lacolazione, se il tempo era ragionevolmente clemente,indossava un vecchio cappotto di cammello ancoradotato di una certa eleganza ed usciva a passeggiare.Gli amici di una vita, il maresciallo ed il notaio, loattendevano alle nove in punto nella piccola piazzaalberata che fronteggiava il palazzo che ospitava daquasi mezzo secolo le sorti dei vecchi sposi. Il portonesi chiudeva con un tonfo sordo e Mario, con unagestualità che si ripeteva identica ogni volta, cercava ilviso magro del suo unico amore nel piccolo riquadrodella finestra della cucina e salutava dolcemente con lamano destra. Quindi partiva insieme agli altri due, perun’oretta di chiacchiere, sorridente.Agnese amava suo marito. Sinceramente. Ed avrebbecontinuato a farlo. Ma non riusciva ad emularne lospirito. Era stato bello vivere al fianco di quell’uomo.Era così distinto anche da giovane. E quanto l’avevanoinvidiata le donne del quartiere il giorno in cui la videroentrare in quello stesso portone vestita di bianco, inbraccio a lui.Mario le aveva regalato una vita da piccola signora.Belle villeggiature, qualche gioiello. Ma di lei, dellapropria esistenza, cos’era stato? Se lo chiedeva già damolti mesi, senza riuscire a rispondersi. Era stata incasa, madre e moglie, per un tempo che non riuscivaneanche a misurare. Il mondo le era passato distante.Aveva tentato di allevare due figli al meglio delleproprie possibilità, eppure un silenzioso tormento lelacerava l’anima. Si sentiva segnata. Irreparabilmente.Non c’era più il tempo, di fronte a sé, a concedere ilconforto della speranza.Laura e Giovanni se ne erano andati da casa da moltianni. Giovanni, il maggiore, partì immediatamente dopola laurea per una borsa di studio all’estero da cui nonera più tornato. Lentamente, senza strappi, eradiventato un estraneo.Laura si era sposata tardi, adulta, quasi perrassegnazione, con un uomo bizzarro che Agnese avevadetestato sin dal primo incontro. Un lavoro mal pagato,un ragazzino pieno di angosce e la cura di una villettafuori città la impegnavano duramente. Troppo, peressere vicina agli anziani genitori. Ma forse, Agnesepretendeva attenzioni eccessive.Gli anni scorrono veloci, nonostante la vita sembri noncondurre più da nessuna parte. Tre ne seguirono inrapida serie senza modificare di molto la routine deidue anziani coniugi. Gradualmente, le passeggiate diMario presero a diradarsi, l’andatura rallentò e la suacaratteristica postura eretta iniziò ad incurvarsi. Maerano fastidi normali, accettabili. L’ordine delle cose.Agnese scendeva a comprare il giornale soltanto duevolte alla settimana. Gli occhi di Mario si stavanoindebolendo e, anche se lui non lo ammetteva, riuscivaa distinguere senza sforzo soltanto i titoli degli articoli.In ogni modo, i due sposi si sostenevano l’un l’altro,costanti. Amore antico fatto di sguardi, poche parole,misteriose intuizioni.Il maresciallo morì quell’inverno. Una bronchitesottovalutata lo mise a letto ai primi di novembre. Furicoverato in ospedale il giorno dell’Immacolata e primadi capodanno Mario ed il notaio l’accompagnarono alcimitero per l’ultima passeggiata. I due amici aprivano ilpiccolo corteo funebre reggendo una sobria corona difiori bianchi ed un cappello con pennacchio rosso daalta uniforme.Agnese, preferì rimanere in casa. Troppa tristezza inquel raduno di vecchi che salutavano l’ennesima vittimadel genocidio silenzioso che stava sterminando la lorogenerazione.Quell’anno l’estate arrivò violenta e con molto anticipo.E come sempre usa, vigliacca, se la prese con i piùdeboli ed i più stanchi.Senza che vi fossero state particolari avvisaglie, Mariosentì svanire il vigore che lo aveva sempre distinto. Erasempre stato un uomo indipendente. Detestava farpreoccupare sua moglie. Agnese era una donna piccola,esile. Corporatura di altri tempi, come non neesistevano quasi più. Con il passare degli anniassomigliava sempre più incredibilmente ad un uccellinocaduto dal nido. Mario non voleva caricarle addosso unpeso tanto gravoso, ma non riuscì a mascherare alungo la propria condizione.Dopo un piccolo collasso, disidratato in modopreoccupante, fu obbligato dal medico a mettersi a lettoed a sottoporsi ad una massiccia cura di ricostituenti.Agnese fu sopraffatta dallo spavento, povera donna.Rapidamente, le condizioni di Mario si aggravarono,costringendolo all’immobilità pressoché assoluta, per laprima volta nella sua vita. Da un giorno all’altro, i suoiocchi si infossarono, cerchiandosi di un nero orribile.Un’ombra sinistra lo avvolse. L’uomo sempre vigoroso esorridente, il pilastro della famiglia, era inchiodato adun ruvido lenzuolo che si andava trasformandorapidamente in un sudario.Nonostante le cure, Mario non accennava a riprendersi.Si rese necessario convocare una riunione di famiglia,come non accadeva da anni.Giovanni provò a rinviare almeno un paio di volte, madopo una settimana di telefonate sempre più furiose daparte di sua sorella non poté accampare scuse. Laura lomise alle strette. Gli fece capire a chiare lettere che erastufa di vedersela da sola coi due vecchi. Lui se n’eraandato, se n’era fregato di tutto e tutti e le avevamollato quella patata bollente tra le mani. Era venutal’ora di darsi una mossa se non voleva essereestromesso da qualsiasi tema ereditario.Riagganciato il telefono ed accesa l’ennesima sigarettadi una giornata da dimenticare al più presto, Giovanni sidecise a prenotare il primo volo utile per tornare a casa.Il concilio di famiglia si svolse attorno al piccolo tavolocircolare di legno della camera nuziale, in pomeriggiotorrido. Mario si consumava in fretta, a pochi metri didistanza, mentre i figli adorati non nascondevanol’insofferenza di trovarsi ad un capezzale tantosgradevole.Giovanni era un quarantenne disilluso e distaccato,avvezzo alla solitudine ed all’affetto mercenario,noleggiato a piccole dosi. Il suo ruolo istituzionale difiglio lo tratteneva suo malgrado in quella stanzatappezzata di carta da parati verdastra che non avevamai potuto soffrire e che puzzava terribilmente dichiuso e stantio. I suoi pensieri andavano al viaggio diritorno ed al fondoschiena di una nera di cui gli avevaben parlato un collega e che avrebbe spezzato presto lamonotonia delle sue le sue notti solitarie. Laura fissòper tutto il tempo il cellulare in attesa, disse, di unachiamata di suo marito, che non arrivò.<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>A<strong>NN</strong>O</strong> <strong>XIII</strong> – <strong>NN</strong>. 67/68 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 200911
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