észegje a ködnek, a könnynek,ha néha magam köszönök még,már sokszor előre köszönnek.Van villanyom, izzik a villany,tárcám van igaz színezüstből,tollam, ceruzám vígan illan,szájamban öreg pipa füstöl.Fürdő van, üdíteni testem,langy téa beteg idegeimnek,ha járok a bús Budapesten,nem tudnak egész idegennek.Mit eldalolok, az a bánatkönnyekbe borít nem egy orcát,és énekes ifjú fiánakvall engem a vén Magyarország.De néha megállok az éjen,gyötrődve, halálba hanyatlón,úgy ásom a kincset a mélyen,a kincset, a régit, a padlón,mint lázbeteg, aki föleszmél,álmát hüvelyezve, zavartan,kezem kotorászva keresgél,hogy jaj, valaha mit akartam.Mert nincs meg a kincs, mire vágytam,a kincs, amiért porig égtem.Itthon vagyok itt e világban,s már nem vagyok otthon az égben.Non c’è più l’ombra opaca di altri istanti,né l’uomo ebbro di nebbia e di pianti,se io rivolgo il saluto persino raramentemolte volte nel saluto mi precede già la gente.Ho la luce elettrica che lumeggia rovente,ho un portatabacco di puro argento,i miei penna e lapis solcano con scatto contento,la vecchia pipa tra le mie labbra spande fumo.C’è un bagno per refrigerare mio corpo,per i miei nervi doloranti tiepido tèe quando passo a Budapest resa tristedel tutto ignoto non mi guarda la gente.È la tristezza quello che cantoche con lacrime avvolge non solo un voltoe la vecchia Ungheria mi riconoscecome un suo giovine figlio cantatore.Ma qualche volta mi fermo la nottetormentando, declinando verso la morte,così scavo il tesoro nel fondo,il tesoro, quel vecchio, sul pavimentocome un malato febbricitante che torna a sésbrogliandosi dal suo sogno, turbato,la mia mano cerca frugando:ahimè, già, una volta che cosa ho agognato?Perché non c’è il tesoro che ho anelato,il tesoro per cui fino alle ceneri mi son bruciato.Sono a casa qui, in questo mondo terrestree non sono già a casa nella volta celeste.Traduzione di © Melinda B. Tamás-TarrE non devo supplicare alcun favore.Tóth Erzsébet (1951) — Budapest (H)KATYŃ FÖLDJÉ<strong>NN</strong>ézd, virágok nőnek itt is, a fák hűvösében.Pici kéket, sárgát kaptak a színek angyalától,Tudják, ennyivel kell gazdálkodniuk.Édes gombán, párolgó avaron csigák lakmároznak.Míg szét nem roppantja őket vaddisznó, emberi láb,Ki nem szippantja őket házukból egy éhes rigó.Ennyi az élet, tudnod kell, noha ember vagy,A föld megsüllyedhet alattad bármely pillanatban.Itt, hol a föld lengyel tisztek vérével keveredett,Arcukat, szemük fényét, utolsó feljegyzéseiket író,Simogatásról álmodó kezüket adták a földnek,Tekintetük nem hitte el, hogy velük ez megtörténhet.Nem szökhet el, aki Lengyelországnak tett esküt,Hallották a feleségek, anyák, a gyermekek.Hallották húsz, harminc, ötven éven át.És bocsáss meg az ellenünk vétkezőknek – szól az ima.Imádság szavára dörrentek a tarkón lövések.Odabuktak a gödörbe, társaik mellé,Egymásra dobált, még meleg férfitetemek vártakUtolsó nyöszörgő szájak: Jaj, Istenem, édesanyám.Csuklóra tekert rózsafüzérek.Mennyi föld kell eltakarni huszonötezer halottat?Nem volt gyertya, virág, imádság fölöttük,Erzsébet Tóth (1951) — Budapest (H)SUL SUOLO DI KATYN¹Guarda, fiori nascono anche qui, nell’ombra degli alberi.L’angelo dei colori gli ha donato un po’ d’azzurro e gial-[lo.Sanno che devono usarne solo poco.I dolci funghi e fumose foglie morte saziano le lumache,Finché le zampe dei cinghiali o i piedi umani non le di-[stolgono,Finché un merlo affamato non le succhia dal loro gu-[scio.La vita è così breve, devi sapere anche se sei un uomo,La terra può crollarti addosso in qualunque momento.Qui, ove la terra è bagnata dal sangue dei soldati po-[lacchiChe alla terra hanno donato il loro volto, la luce degli[occhi,Le mani scriventi le ultime righe e desideranti carezze,I loro sguardi diffidavano che anche a loro potesse toc-[care.Colui che ha giurato alla Polonia, non può più fuggire,Lo sentivano le mogli, le madri ed i bambini.Lo udivano da venti, trenta, cinquanta anni,E rimetti i nostri debitori – enuncia la preghiera.Per le preghiere centrando la nuca spari tuonavanoCaddero nella fossa accanto ai compagni d’armi fred-A mécses a távoli kedvesek szemében égett.16<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>A<strong>NN</strong>O</strong> <strong>XIII</strong> – <strong>NN</strong>. 67/68 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2009
Végtelen imádság lett az életük.Csöndmérgezte hónapok, évek, elszáradt remény.A halált ők nem élték meg, a halál nem része azÉletnek. A gyalázat is az élőkre várt, a szégyen, élni[tovább...És jő a béke, a hazugságot hazugságra halmozó.A tömeggyilkosnak nincs arca, hogy felelhetne.A föld nem válogat. Új virágot növeszt bűnösökÉs ártatlanok vére. Az óra örökké lengyel időt mutat.A XVI. Salvatore QuasimodoKöltőversenyen, Balatonfüreden2008. szeptember 6-án a fentikölteményért szerzője FrancoCajanitól, a nemzetközi zsürielnökétől Salvatore QuasimodoOklevelet kapott. – Tóth Erzsébet1951-ben született Tatabányán,szabadfoglalkozású újságíró.Legutóbbi kötete: Rossz környék.(2004) Irodalmi díjai: József Attiladíj(1995), Arany János jutalom (1999), az Év Könyvedíj(2001).Megjelent: Irodalmi Jelen 8. évf. 83. szám, 5. old. (2008.szept.) Szerk. Mgj.: Veszprémi levelezőnk, Dr. PaczolayGyula PhD, tavaly szeptemberben, a fenti díjról szóló hírmegjelenése után azonnal eljuttatta a verset, amit hálásanköszönünk. A verset a Szerző beleegyezésével közöljük.[dati,Corpi maschili ammassati ancor caldi attendevanoGli ultimi gemiti delle labbra: Oh Dio mio, oh madre[mia!Ecco sui polsi i rosari avvolti.Quanta terra serve per coprir 25 mila morti?Sopra di loro mancavano candele, fiori, preghiere,La lucerna brillava negli occhi delle distanti amate.La loro esistenza divenne una preghiera infinita.Mesi, anni erano dannati dal silenzio, dalla speranza[svanita.Loro non hanno vissuto la morte: non fa parte dell’es-[sere,L’onta spettava ai viventi e vergogna per sopravvivere…E la pace è arrivata accumulando bugie ricorrenti.L’assassino non ha la faccia per poter rispondere.La terra non fa eccezioni. Il sangue dei criminali e inno-[centiFa crescere fiori nuovi. L’orologio mostra l’ora polacca[per sempre.¹ N.d.T. In ricordo dell’olocausto dei soldati polacchitrucidati a Katyin (in polacco Katyń) in Ucraina dai russiper ordine di Stalin, durante la seconda guerramondiale.Traduzione di © Melinda B. Tamás-TarrN. d. R.: Il 6 settembre 2008 a Balatonfüred Franco Cajani, presidente della giuria internazionale del XVI Premio Poesia«Salvatore Quasimodo», ha consegnato il Diploma d’Onore all’Autrice per questa lirica. Erzsébet Tóth è nata nel 1951 aTatabánya, è giornalista libera professionista. Il suo ultimo volume di poesie è: Malambiente (2004.) Premi letterari ricevuti:Premio Attila József (1995), Premio János Arany (1999), il Premio del Libro dell’Anno (2001).È apparsa sul Presente Letterario (Irodalmi Jelen), Anno VIII. N. 83, p. 5, (settembre 2008). Il nostro corrispondente diVeszprém, Dr. Gyula Paczolay PhD ha immediatamente fatto pervenire – nel mese di settembre dell’anno scorso – questapoesia e La ringraziamo di cuore. La pubblichiamo con l’accordo dell’Autrice.Prosa unghereseDezső Kosztolányi (1885-1936)LA SEDIA ROSSADurante l’agonia di mio fratellopiù piccolo la nostra stanza fucompletamente trasformata.Nostra madre fece spostare ildivano nell’altra stanza, illampadario fu staccato dal soffittoper non disturbare gli occhi delpiccolo malato e su ordine del medico fu fatto girarepersino lo specchio. Vi rimase solo un letto da campoper quelli che assistettero il malato di notte, e una sediarossa. Mia madre trascorreva le notti seduta su questasedia. Era fatta di sottili fili di bambù, trasferita percaso dal giardino nella stanza del malato, ci si potevaaccucciare bene però se si voleva passare svegli lanotte. La persona che la usava di notte di solito laportava vicino la stufa per riscaldare le mani ghiacciatee tremanti. Dovevamo cambiare continuamente lepezze al malato. Verso l’alba anch’io mi assopivo spessosulla sedia rossa.Non sapevo ancora cosa sarebbe successo. Era unpezzo di mobilio come il letto da campo, l’orologio, iltavolo o la grande credenza di fronte al letto di miofratello, nell’angolo opposto della stanza. Eppure avevala fama di essere stregata.Al secondo giorno della malattia mio fratello si sedettenel letto e sussurrò con un filo di voce:«Sta lampeggiando.»Erano le dieci del mattino. Non posso dimenticarel’incomprensibile raccapriccio che mi risalì lungo la spinadorsale quando sentii per la prima volta la sua vocemutata, tremebonda, delirante. Il cortile era innevato.Una fredda luce invernale illuminava la stanza. Inquell’attimo sembrò particolarmente spaventoso enaturale che vedesse dei lampi. Ci scambiammo sguardispaventati. I suoi occhi, i suoi begli occhi azzurri eintelligenti erano distorti.17<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>A<strong>NN</strong>O</strong> <strong>XIII</strong> – <strong>NN</strong>. 67/68 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2009
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