pervase di liricità, testimoniate nella realtà di un viaggioo immaginate nel ricordo. 1Nella narrativa ungherese di fine secolo, sarannogli scrittori provenienti dalla cultura borghese dellaBudapest fin-de-siècle, quelli più incliniall’ambientazione esotica, rappresentata da una nuovacoscienza culturale e da una nuova concezione dell’arte.I primi grandi e nostalgici viaggiatori, ammiratoridelle bellezze dell’Italia nei primi anni del Novecentofurono Endre Ady, Mihály Babits, Dezső Kosztolányi,Antal Szerb, i quali giunsero in Italia non solo pervedere i monumenti d’arte e le bellezze naturali, ma percompiere un pellegrinaggio intellettuale, poichél’esperienza di un viaggio in Italia rappresentava lapossibilità di un incontro con la vera cultura e con untipo di vita più umana, più libera, più vicina all’arte ealle bellezze della natura. E proprio la breve esperienzadi una «vera esistenza», legata al soggiorno italiano,era anche un triste raffronto di una vita e di unacultura, mitizzate con la vita quotidiana in un paese piùdistante dal sole e dalle bellezze della natura e dellearti.Tra le città italiane, mete preferite dei viaggiatoriungheresi già all’epoca delle Riforme (1820-1848) c’eraVenezia: la «regina del mare», che da secoli era laporta dell’Italia per coloro che provenivanodall’Ungheria, ed ha sempre avuto un ascendentespeciale sugli ungheresi per il suo incanto magico eanche nelle descrizioni di viaggio la città, tutta marmi ericchezze, veniva rapportata con le città ungheresi tuttefango e povertà.VeneziaRio della MisericordiaIII. 1 La Venezia di Mihály BabitsIl poeta Mihály Babits nella lettera indirizzataall’amico Juhász Gyula, scritta nel 1908, descrive il suoincontro con una piccola parte dell’Italia, esattamenteVenezia:Babits Mihály-Juhász Gyulához[Szekszárd,1908.aug.26.előtt.]Kedves Barátom!Megjártam egy kis karajt a szép Itáliából és úgyérzem, hogy megnőttem egy fejjel. […]Konstatáltam hogy a mi szép dunántúli egünk épp olykék, dombjaink éppoly zöldek és enyhén gömbölyűek,mint az olasz ég és az olasz dombok: de honfitársainkmogorvábbak, utcáink csöndesebbek mint a kedvesolaszok és az olasz utcák. 2L’accostamento tra l’Italia e la Pannonia è una notapresente in molte delle sue poesie, e non è affatto unacasualità.Mihály Babits, infatti, nacque nel 1883 a Szekszárd,l’antica Alisca della Pannonia romana.La Pannonia, o Dunántúl [Oltredanubio], è laregione conquistata dall’imperatore romano OttavianoAugusto nell’anno 35-33 a.C.. Verso la fine degli anniQuaranta l’imperatore Claudio occupò Carnuntum efondò le colonie di Aquincum (il primo nucleodell’attuale Budapest) e Claudia Savaria (il primo nucleodell’odierna Szombathely). Qui si stanziaronocommercianti e artigiani italici; pertanto, nellatradizione culturale ungherese, essa viene messa instretta relazione con l’Italia.Quando nel 1940 i redattori del numero ungheresedella rivista “Termini” di Fiume chiesero a Babits discrivere sui legami tra l’Italia e la sua terra, il vecchio emoribondo poeta al quesito rispose:«Conta poco la quantità dei fatti. Chi è innamoratodell’Italia e della Pannonia, sente la vanità di taledomanda, che gli riesce addirittura incomprensibile.Sono cose spirituali ed anche i paesaggi hanno l’anima.Se esiste tra gli uomini la“Wahlverwandschaft”, l’affinitàelettiva, perché non potrebbe esistere qualcosa disimile anche tra le nazioni?» 3 e confessò di avere duepatrie: “Az én hazám Pannónia, a második hazámItália”. 4Babits affermò che l’affinità tra i due paesi, omeglio la latinità della Pannonia ungherese consistevaprima di tutto nella sua storia.Questa regione, anticamente fu terra romana eanche oggi si distingue per i suoi monumenti e per lesue rovine dando testimonianza della plurisecolarepresenza romana in anfiteatri, templi, bagni, nellafamosa Iside di Savaria, vicino l’attuale Szombathely, enella Villa Ercole di Aquincum ([Óbuda, vecchia Buda]).Il legame della Pannonia con la terra italiana vennerafforzato dalla continua presenza italica in questa partedell’Ungheria.Dopo i romani, infatti, in questa regione arrivaronoi primi italiani per convertire gli ungheresi, per costruirele prime chiese e le prime città del nuovo stato di SantoStefano.E vi si stabilirono le prime colonie di italiani,costruttori delle prime città ungheresi, seguiti poi dascultori e pittori, dagli uomini eruditi che ornarono conle loro opere le corti dei re ungheresi, tra i quali i reangioini di Napoli (Carlo Roberto, Luigi il Grande diNapoli).In seguito all’occupazione turca (1526), lamagnificenza dell’Ungheria medievale e rinascimentalecrollò, e s’infransero anche i legami che univano laPannonia all’Italia. Tuttavia, fu storicamente rilevanteche mentre le parti orientali dell’Ungheria furonotravolte dal dominio turco e dalle guerre religiose, laPannonia rimase cattolica. Qui vissero nelle lorofortezze e castelli quei nobili i quali negli intervalli dellecontinue campagne antiturche, lessero i poeti e glistorici latini, e scrissero le loro opere seguendo imaggiori modelli della cultura classica, contribuendosempre più frequentemente a far risuonare la parolalatina.Grazie alle scuole monasteriali e alle Accademie, esoprattutto al suo clima temperato, al suo dolcepaesaggio collinare, coperto di boschi e vigneti, pervasadi reminiscenze latine, la Pannonia divenne il paese deipoeti, patria degli scrittori ungheresi, da JanusPannonius (1432-1472), primo poeta ungherese, aifamosi poeti del Romanticismo nazionale ungherese,come Mihály Vörösmarty (1800-1855), e terra nataledei primi grandi poeti moderni, come Dániel Berzsenyi(1776-1836), e Mihály Babits (1883-1941). Per questosi formò il mito della Pannonia, Paese in cui sulle50<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>A<strong>NN</strong>O</strong> <strong>XIII</strong> – <strong>NN</strong>. 67/68 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 2009
panchine sotto i pergolati e nei padiglioni delle ville sileggevano le opere di Virgilio e di Lucrezio: dovepaesaggio e tradizioni creavano un’atmosferafavorevole alla formazione di uomini sensibili allabellezza e alle arti. Mihály Babits dedicò al natìoDunántúl, l’Oltredanubio, questo bellissimo passo:«L’Oltredanubio è una contrada soave, azzurra, èsimile alle parti più belle dell’Italia, ai dintorni di Firenze.Non è strano che gli scrittori dell’Oltredanubiosiano i più vicini alla leggerezza e all’eleganza latine. Einoltre l’Oltredanubio è la regione più occidentaledell’Ungheria, la sua regione più colta, in immediatorapporto con l’Occidente, la sua regione piùaristocratica: il lievito dell’Oltredanubio ha sempre datoalla nostra letteratura l’impronta più universale, menopopulistica, onnicomprensiva, più aristocratica e piùeuropea». 5L’Oltredanubio, avamposto occidentaledell’Ungheria, è la contrada che, anche nel paesaggio,fa da ponte ideale verso il mondo italiano, e Babits, inquanto gentiluomo di tale regione, è l’immagine cheincarna al meglio la vocazione occidentalistica,assimilatrice e mediatrice della civiltà magiara.Inoltre, Babits, appartiene per nascita alla piccolanobiltà cattolica, ed è alla tradizione culturale di questaclasse – aperta all’Occidente, alla cultura classica e aquella italiana soprattutto – che egli si richiama.Il vero ideale degli scrittori e degli intellettualiungheresi fu l’Europa. E anche l’uso della lingua latina,prolungato nella prassi scolastica ed amministrativa finoalla metà dell’Ottocento, testimonia quanto amore erispetto per la civiltà latina, fosse diffuso in Ungheriaper tutto l’Ottocento e anche inizio Novecento tra moltiintellettuali.Babits parla di un autentico legame tra l’animalatina e pannonica e ci rivela il segreto di questa latinitàcon queste parole:“Ruskin una volta ha provato ad esaminare ilpaesaggio, illustrandolo coi colori, e ha chiamato l’Italiauna contrada azzurra”. Anch’io nei miei versi hochiamato la Pannonia azzurra „Tonda, mite,luminescente, contrada azzurra”… Ma in verità neppureuna contrada azzurra, come la seconda, multicolore.Mite, latina. 6Da questi sentimenti per la comune eredità latina siformò il culto dell’Italia di una intera generazione dellanuova letteratura ungherese, e sempre da questosentimento si ispirarono le «poesie italiane» di poetiquali Mihály Babits, Endre Ady, Dezső Kosztolányi, diGyula Juhász, e István Vas.Il poeta Mihály Babits chiamò «un oscuro desiderioselvaggio» quell’istinto che aveva spinto gli antichimagiari nomadi a scorrerie temerarie verso l’Italia, chespinse poi più tardi gli studenti ungheresi verso leuniversità italiane e poi gli intellettuali «decadenti» delprimo Novecento ad andare in Italia per trovare tuttoquello che mancava loro in patria: il sole, le bellezzedella natura e dell’arte, i ricordi di un grande passato.Nel 1904 Babits, allora ventunenne, scrive la poesiaRecanati, sotto il titolo della quale annota: villaggionatale del Leopardi. Precisiamo che il poeta non eraancora andato in Italia, ma a quel tempo conosceva giàalcuni versi del poeta italiano.Il titolo stesso della poesia lascia intuire che ilpoeta ha voluto rendere omaggio a Leopardi coi suoiversi. In realtà non sarà così. Babits infatti, indossa unamaschera, finge di essere il poeta gobbo, di trovarsipersino nella sua casa, nel cortile accanto al pozzo doveci pone davanti agli occhi il paesaggio coi suoi fioriazzurri, le sue colline piene di uva, eppure, non è diRecanati che parla, ma della sua città natale,Szekszárd.In tutta la poesia Babits è turbato dal desiderio dicercar qualcosa e allo stesso tempo di non desiderarenulla. Nella seconda strofa, lui stesso ammette dicercare un fiore azzurro:[…]Vágyam van és semmire sincs vágyam:hogy lehetne? Mitsem ismerek.Tán egy kék virágot keresek.Hol vagy, hol vagy, édes kék virágom?Nella terza strofa però, Babits ci appare nel cortiledove accanto alla balaustra del pozzo, il fiore che luicerca, può fiorire invece lui si perde e i suoi occhi e lesue mani non arrivano a toccarlo:„Künn az udvar kútja kőpárkányamellett nyílhatsz, míg én itt veszem;elmosódik domborfaragványa:odáig sem ér szemem s kezem.[…]Sembra che il poeta abbia paura del suo stessodesiderio, paura che esso non venga realizzato.Nella quarta strofa, mentre sospira di fronte a tantipozzi, tanta uva, colline e fiori azzurri della sua bellaItalia, si chiede quale sia la sua sorte: restare in patriadove la terra e le nuvole sono selvagge e doveattraverso l’immagine della neve che col suo peso copree nasconde ogni cosa, lui ha la sensazione dioppressione, oppure desiderare l’Italia, e allo stessotempo scorgersi come un cane pastore che brontolamentre cerca qualcosa:„Mennyi kútad, mennyi szőllőd, dombods kék virágod, szép Itáliám.Merre síma vászonsátrad bontod,az alatt nyíl az enyém is tán.Vagy ott fenn, hol föld és felhő kondor,hó alatt diderg az senyvedőn,míg felül e fagyos lepedőnkomoran jár óriás komondor.[…]Nelle due ultime strofe Babits ci rivela perché tantaaffannosa ricerca e tanta riflessione legata al fiore.Il fiore non è altro che il poeta stesso, colui checerca le proprie radici, così come il fiore ha la suaradice.È inutile cercare il fiore azzurro della felicità, senzaprima aver toccato la carne della terra con le nostreorme. Il fiore non può fiorire se solo sfioriamo la terra.„Nem! A boldogságnak kék virágamindig csak nyomainkon fakad.<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>A<strong>NN</strong>O</strong> <strong>XIII</strong> – <strong>NN</strong>. 67/68 MARZO-APRILE/MAGGIO-GIUGNO 200951
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