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101<br />

Introduzione<br />

Mena delle pecore impose l’autorità e il controllo regio sugli interessi dei<br />

privati e rese idoneo il vasto territorio della pianura pugliese ad accogliere i<br />

pastori di armenti e di greggi che dall’Abruzzo nei mesi invernali scendevano a<br />

valle alla ricerca di pascoli e foraggio. Già i signori feudali e i proprietari della<br />

zona, in passato, avevano provveduto a dare in fitto le terre per l’attività di<br />

pastorizia; il Montluber 276 con l’approvazione di Alfonso requisì a favore del<br />

fisco tutti i terreni disponibili, preparando stazzi ed ovili, locazioni e poste 277 .<br />

Altre ancora erano le competenze della Sommaria.<br />

In occasione di successione ereditaria, dinanzi ai Commissari regi, gli eredi<br />

di un defunto feudatario prestavano giuramento di ligio omaggio al Re. Di ciò<br />

si faceva regolare verbale o strumento, e una copia di esso veniva inviata per la<br />

custodia alla Camera della Sommaria, che d’altronde interveniva anche per il<br />

controllo del relevio o tassa di successione 278 . Si sa che i feudatari erano stati<br />

liberati dall’obbligo di prestare servizio militare al sovrano grazie al pagamento<br />

sostitutivo dell’adoa. Nonostante le promesse e gli impegni di Alfonso di abolirla,<br />

sotto di lui e sotto Ferrante, tale tassa continuò a esser pagata, e pertanto<br />

a essere registrata nella Sommaria.<br />

Di sua competenza erano anche le gabelle 279 che venivano pagate per la<br />

vendita di animali nei mercati o sulle piazze (platea 280 ), per la vendita di carne<br />

al minuto (bucceria 281 ), per la vendita del vino (gabella del terzo del vino 282 ); i<br />

276 I primi doganieri a gestire la Dogana delle pecore di Puglia furono, come è noto, Restaino<br />

Capograsso di Sulmona e Bartolomeo della Torre di Aquila. Cfr. Gentile, La politica, p. 41.<br />

277 Chi prendeva in fitto una posta o ovile era chiamato capo mandra o jaccio; coloro che prendevano<br />

in fitto una locazione erano detti locati. Per un centinaio di animali grossi era versata una fida<br />

che si aggirava sui 25 ducati; per un centinaio di animali piccoli intorno agli 8 ducati. Ai pastori era<br />

accordato il diritto di attraversare il territorio senza pagare pedaggi o scafe; di portare grano e vino<br />

per i propri bisogni alimentari; di far legna nei boschi locali; il permesso di acquistare il sale a<br />

prezzo speciale e di portar le armi a difesa delle greggi. I pastori ebbero anche il privilegio di poter<br />

essere giudicati solo dal doganiere, che, tra l’altro, avrebbe provveduto, in nome del re, a risarcire gli<br />

eventuali danni arrecati dal bestiame ai proprietari locali.<br />

278 Si veda l’inventario 47 Regia Camera della Sommaria, Materia Feudale, Relevi dell’Archivio di<br />

Stato di Napoli, ora anche in formato digitale: .<br />

Le università e le chiese proprietarie<br />

di terre feudali pagavano invece il quindennio (ogni 15 anni).<br />

279 Si definivano gabelle i tributi esatti in base a una certa aliquota del valore delle merci che si<br />

introducevano in una città. Le gabelle costituivano un capitolo dello ius dohanarum, e la loro<br />

introduzione era stata ad esso contemporanea. Cfr. Ageta, Annotationes, p. 396.<br />

280 Sui bovini, i suini e i caprini che si portavano vivi a Napoli per esser venduti si riscuoteva, da<br />

tempi anteriori a Ruggero il Normanno, un’imposta detta gabella di Piazza Maggiore di 15 grana per<br />

oncia sul prezzo; Bianchini, Storia, p. 181.<br />

281 Il reale della carne era l’antico dazio bucceria o scannagio della città di Napoli, ed era un’imposta<br />

sulla macellazione di grana 20 per ogni maiale e di grana 40 per ogni vaccino; cfr. Coniglio, Il<br />

Regno, p. 193. Sotto gli Aragonesi furono sottoposte a questa gabella anche altre specie di animali,<br />

per cui fu anche detta «delle carni, dei capretti, dei volatili e delle uova». Nel 1484 Ferrante impose<br />

sulla carne una «cabella nova [...] in Napoli et casali» (Repertorium, c. 46v) disgiungendo da essa la<br />

gabella dei capretti, delle uova e dei volatili, e permutando poi questa con quella delle tinture che era<br />

allora posseduta da Dragonetto Bonifacio (ASN, Arrendamenti. Nuova Serie, 491, c. 36r).<br />

282 La gabella del terzo del vino, era così chiamata perché riscossa per qualche tempo in ragione<br />

della metà del costo del vino ai tavernieri, che veniva ad essere poi un terzo quasi del prezzo<br />

complessivo a cui lo si rivendeva. Questo dazio sul consumo gravava le vendite di vino a minuto, che

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