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Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la f<strong>il</strong>osofia della religione? <strong>Fogli</strong> <strong>Campostrini</strong><br />
nominalismo etico). Buono in sé per me non vuol dire “buono in se stesso perché così<br />
pare a me”. Potremmo dire: quel “per me” non è una specificazione epistemologica – lo<br />
so io che è bene, ma non lo sai tu – ma è una specificazione ontologica. Scheler scrive<br />
che qualcosa è “buono in sé” proprio nel senso di “indipendentemente dalla circostanza<br />
che io lo sappia o no”, perché è questa l’implicazione di “in sé”. “In sé” vuol dire<br />
precisamente indipendentemente dalla mia esperienza. Qui Scheler ribadisce la sua tesi<br />
realistica in materia di valori: “in sé” è la formula del realismo.<br />
A questo punto, possiamo cominciare a comprendere la compatib<strong>il</strong>ità di questo realismo<br />
con l’idea del compito assegnato a me. Non a tutti è dato fare le stesse scoperte, e<br />
produrre le stesse realizzazioni assiologiche. Il mondo dei valori, dice Scheler, si presenta<br />
a ciascuno – o almeno c’è questa possib<strong>il</strong>ità, se non è soffocata dalla mancata fioritura<br />
della persona – come carico di un particolare richiamo personale: “Questo è per te”. «Ma,<br />
inoltre, è <strong>il</strong> bene in sé “per me” nel senso che in questo specifico contenuto materiale del<br />
bene in sé c’è, a volerlo descrivere, un rinvio a me stesso, quasi un dito puntato che esce<br />
da questo contenuto e indica me, come se mi sussurrasse: “per te”» 307 . Si noti la finezza<br />
della descrizione fenomenologica, <strong>il</strong> suo essere vividamente intuitiva. In sede di<br />
conclusione di questa riflessione è forse più chiaro <strong>il</strong> senso del suo inizio – con la parabola<br />
kafkiana dell’uomo di fronte alla Legge.<br />
10. Una posizione unica nel cosmo morale<br />
«Questo contenuto mi assegna una posizione unica nel cosmo morale, e,<br />
secondariamente, mi ordina azioni, atti, opere che sembrano dire: “io sono per te” e “tu<br />
sei per me”».<br />
Questa conclusione caratterizza la personalità di una persona come qualcosa che è<br />
veramente comprensib<strong>il</strong>e a partire dalla sua destinazione. Il concetto di “destinazione” si<br />
oppone a quello di “destino” – che è <strong>il</strong> concetto di quel tanto di determinato che le<br />
circostanze date della mia vita e del mio carattere impongono alla mia vita. Nel destino è<br />
quella che Martin Heidegger chiamerebbe la mia fatticità e la mia Geworfenheit, <strong>il</strong> mio<br />
“essere gettato” nel mondo, <strong>il</strong> mio essere qui, “da”. In effetti una parte importante della<br />
sezione sulla persona nei contesti etici è dedicata alla distinzione fra carattere e<br />
personalità. Carattere sta a destino come personalità sta a vocazione. Fra i due è lo scarto<br />
della libertà, di cui Scheler dunque abbozza una teoria profondamente innovativa. La<br />
libertà della persona è <strong>il</strong> suo spazio d’azione fra destino e vocazione. Per concludere<br />
dunque la nostra esplorazione della monadologia scheleriana e del concetto di<br />
individualità del mondo personale, dobbiamo passare per un chiarimento di questa<br />
differenza.<br />
«Ogni profonda valutazione morale di un’altra persona consiste precisamente nel fatto che<br />
non commisuriamo le sue azioni né a norme di validità universale, né ad un’immagine<br />
ideale aleggiante dinanzi a noi, ma bensì ad un ideale che ci siamo formati ricavando dalla<br />
307 M. Scheler, Il formalismo cit., p. 600.<br />
Rivista online della <strong>Fondazione</strong> <strong>Centro</strong> Studi <strong>Campostrini</strong> ‐ Verona – Italy<br />
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