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Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la f<strong>il</strong>osofia della religione? <strong>Fogli</strong> <strong>Campostrini</strong><br />

Un altro grande autore personalista, Denis de Rougemont (caro a me quanto Scheler a De<br />

Monticelli), scrive in proposito che «persona e vocazione non sono affatto separab<strong>il</strong>i» 317 ,<br />

giacché «la persona [...] è l’uomo libero e legato alla comunità attraverso una vocazione<br />

singolare, che lo distingue dalla massa e allo stesso tempo lo lega alla comunità nella<br />

quale è <strong>il</strong> solo responsab<strong>il</strong>e del suo specifico modo di essere con tutti» 318 . Ritengo che<br />

questa sia la cornice ermeneutico-concettuale più adatta per comprendere le<br />

considerazioni scheleriane sulla Gesamtperson, ovvero sulla dimensione collettivocomunitaria<br />

dell’esistenza personale, fondata sull’unicità del singolo individuo libero e<br />

responsab<strong>il</strong>e. (Ed è forse proprio per questo suo accento propriamente personalistico che<br />

Scheler vedeva con sospetto la riduzione trascendentale husserliana, preferendo rimanere<br />

ancorato soltanto a quella eidetica: difatti l’“Io puro”, fine e presupposto della riduzione<br />

trascendentale, non è forse un io impersonale?)<br />

Ora, libertà e responsab<strong>il</strong>ità, se legate alla vocazione, vanno di pari passo, e insieme<br />

definiscono la persona. Sempre Rougemont, in questo senso, scrive: «non vi è persona<br />

senza un Dio che interpella» 319 . Dunque, non vi è persona senza un Dio personale, che<br />

chiama e perciò fonda la persona umana come un tu capace di rispondere liberamente<br />

(ecco in che senso responsab<strong>il</strong>ità e libertà sono legate) a tale chiamata, attraverso un atto<br />

di fede. Ma questo “Dio personale” che “chiama” l’uomo, che lo cerca, non è forse <strong>il</strong> Dio<br />

del cristianesimo? L’«ardua tesi scheleriana» ricordata da De Monticelli, per cui la “verità<br />

metafisica” coincide con la “verità personale” non risulterà comprensib<strong>il</strong>e e asserib<strong>il</strong>e<br />

soltanto entro un contesto religioso in cui proprio la “verità metafisica” (Dio) si è fatta<br />

“verità personale” (Cristo, che proclama “Io sono la Verità”)? E dunque, <strong>il</strong> «bene in sé per<br />

me» non sarà <strong>il</strong> riflesso di quel “sommo Bene in sé” che si fa “per noi” e “come noi”<br />

nell’Incarnazione? Ritengo dunque che parlare di esperienza religiosa in quanto<br />

esperienza eminentemente “personale”, anche in senso mistico, sia valido soltanto a<br />

condizione che tale esperienza venga concepita non soltanto come “esperienza che l’uomo<br />

fa di Dio”, o “della divinità”, ma anche come “esperienza che Dio, in quanto persona, fa<br />

dell’uomo” 320 .<br />

317<br />

D. de Rougemont, Politique de la Personne, Editions “Je Sers”, Paris 1934, pp. 52-53.<br />

318<br />

L’Amore e l’Occidente cit., p. 463.<br />

319<br />

D. de Rougemont, L’aventure occidentale de l’homme, L’Age de l’Homme, Lausanne 2002 (Albin Michel,<br />

Paris 1957¹), p. 33.<br />

320<br />

Circa la mistica, mi sembra fruttuosa, in questo senso, la distinzione operata da Rougemont in L’Amour et<br />

l’Occident tra «mistica unitiva» e «mistica epitalamica»: mentre la prima – che annovera ad esempio, tra i<br />

propri esponenti, Meister Eckhart – anela all’annullamento dell’io attraverso la fusione totale con <strong>il</strong> divino, la<br />

seconda invece mirerebbe ad un “matrimonio spirituale”, ovvero ad una com-unione in cui si manterrebbe<br />

l’“infinita differenza qualitativa” (e ontologica) tra Creatore e creatura, come testimoniato da alcune folgoranti<br />

pagine di Teresa d’Av<strong>il</strong>a, la quale considerava autentiche soltanto le visioni che la spingevano a meglio amare<br />

nel mondo. Potremmo allora chiederci se l’esperienza religiosa buddhista, ad esempio, non vada inquadrata<br />

entro la cornice della “mistica unitiva”, in quanto “esperienza” di un nirvana impersonale in cui<br />

annullare/fondere <strong>il</strong> proprio io scopertosi anâtman, ovvero parimenti impersonale: è per questo, del resto,<br />

che G. Bonola la definisce «redenzione senza redentore» (cfr. G. Bonola, Il paradosso della liberazione dal<br />

male nel buddhismo, in Id. et alii, Religioni e Salvezza, Atti dell’VIII Convegno Annuale dell’Associazione<br />

Italiana di F<strong>il</strong>osofia della Religione, a cura di G. Cunico & H. Spano, Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli<br />

2010, pp. 45-79).<br />

Rivista online della <strong>Fondazione</strong> <strong>Centro</strong> Studi <strong>Campostrini</strong> ‐ Verona – Italy<br />

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