ULISSE 7-8 - LietoColle
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L'ALCHEMIA DELLA LINGUA<br />
Nel costruirci un percorso di crescita e di verità è inevitabile partire dalle origini, ripercorrere a ritroso<br />
l’evoluzione della nostra esistenza fino alla genesi, al contesto storico e politico e alla tradizione che<br />
l’hanno condizionata.<br />
Si portano segni e codici acquisiti, ereditati da consegne antiche, talora infelici, talora fondanti di un<br />
nuovo modo di esistere.<br />
Sono nato e cresciuto in Veneto, a Caorle, in provincia di Venezia, sul mare, fino ai diciannove anni. Le<br />
conversazioni quotidiane avvenivano in dialetto, le cose della vita le ho imparate in dialetto, i sogni stessi<br />
li ho nutriti in dialetto, la mia lingua madre e nutrice.<br />
Lingua madre è la lingua nella quale apprendi l’essenza vitale delle parole, il respiro che è loro concesso è<br />
lo spazio che hanno nell’esistenza quotidiana: si apprendono i concetti con le loro altezze e le loro<br />
profondità.<br />
Il suono nasce per modulazione del respiro e compressione del pneuma vitale, e la reiterazione del suono<br />
si fa rito attorno alle cose, si fa rito di evocazione, di vocazione e osservazione.<br />
Il quid osservabile si pone in mutamento, ciclico, anch’esso reiterato, e mutevole, inafferrabile se non per<br />
pochi lembi.<br />
I concetti sono suoni legati alle cose e il dialetto è stato, per me, la sola via per arrivarvi. Per questo mi è<br />
stato lingua madre, in un tempo non molto lontano in un luogo alquanto appartato dove l’italiano non era<br />
ancora forte da porsi come alternativa di lingua viva.<br />
L’italiano era la lingua dell’amministrazione anagrafica, scolastica, la lingua della televisione e della<br />
burocrazia.<br />
In questo incide molto la dimensione del microcosmo familiare, popolare, poco attraversato<br />
dall’informazione dei media, più legato alla parola di strada, alla parola tramandata e alla diceria.<br />
Il lessico familiare crea ulteriori declinazioni alle parole, le adatta ad esigenze domestiche, crea piccole<br />
storture, mutazioni consonantiche, assorbe l’umore delle persone.<br />
Il dialetto muta da famiglia a famiglia, da persona a persona; quello di mio padre è arcaico, stretto e<br />
duro, legato alla terra; quello di mia madre è dolce, suadente e musicale, si apre al mare e si apre al<br />
mondo.<br />
E il dire della vita e della sua assenza rimane un dire per approssimazione, un dire che solo di rado cade<br />
nella grazia dell’estasi e, oltre, della rivelazione.<br />
Non ha senso dire se non nel segno della verità o del sogno, il resto è glorificazione dell’assenza, idolatria<br />
della perdita.<br />
Le verità, non più assolute, si intrecciano e portano a fiorire l’essenza della vita, la sua spendita: la vita<br />
non sempre è vissuta, talora è subita, talora è patita, ma ogni verità a priori cade di fronte all’esperienza,<br />
che sola può vestirci di sapere, nelle sue profondità e nelle sue altezze.<br />
I sogni sono la forza motrice, sono la spinta al rinnovamento. I sogni sono il desiderio che alimenta la<br />
vita, che la porta ad esperire, ad entrare nella metamorfosi dell’esistente.<br />
Mi rendo conto solo ora che in casa mia, una famiglia patriarcale di dieci persone, prevaleva il dialetto di<br />
mia madre, in continuo contrasto con l’altro medesimo dialetto di sesso diverso, arcaico – come dicevo –<br />
asciutto, che riporta alla durezza del solco, alle asperità dell’esistenza, una lingua spigolosa e spezzata,<br />
serrata nel respiro.<br />
Per dirla con parole di Anna Maria Farabbi: “La lingua dialettale come materia linguistica, per me, è figlia<br />
del padre. Proviene da un’origine contadina o urbana in cui il modo di disporre il dire, il comportamento, il<br />
ruolo delle persone e delle parole, e quindi dei concetti – esistenziali e relazionali – avevano un timbro<br />
maschile”.<br />
Una lingua aggressiva e troppo spesso volgare da poter esprimere solo rabbia e amaro dolore.<br />
La lingua del padre è lingua chiusa legata alla fissità e alla tradizione, è quel dialetto che non si apre, che<br />
non riesce a dire cose nuove, eppure rivendica il controllo: sul tramandabile, sul pensabile.<br />
Dico che in casa mia prevaleva il dialetto di mia madre, ma quello di mio padre dominava, in aperto<br />
contrasto imponeva, non accolta, l’oligarchia dei patriarchi.<br />
Ma a questo punto non è più questione di lingua o di dialetto, è questione, come sostiene Anna Maria<br />
Farabbi, di linguaggio, maschile e femminile.<br />
Il dialetto è carico di forte valenza sessuale, è lingua corporale, legata all’istintualità del pensiero fisico,<br />
risente molto dell’umoralità della materia e degli elementi.<br />
Ci sono un dialetto di mare e un dialetto di terra, un linguaggio femminile del moto fluente della nebbia<br />
evanescente e un linguaggio maschile della concretezza, della materia dura.<br />
Il mio dialetto assomiglia alle parlate della costa dell’alto Adriatico, è aperto, ha in sé la vibrazione del<br />
vento e il movimento del mare e questo determina un particolare sguardo sul mondo, proprio della gente<br />
di mare. Vi è una vastità immensa e, a guardarla, un piccolo sguardo.<br />
Ecco il dire che descrive, attento alla luce e al movimento, ecco il dire che non può fermarsi su se stesso,<br />
ma deve bilanciarsi con un altrove che non ha misura. Il suono porta in sé il limitare del porto, la soglia e<br />
il confine, la tensione verso l’ignoto, le partenze e i ritorni. Tutte cose insostenibili al raziocinio umano,<br />
più facili da accogliere se affidate all’incertezza delle nebbie, alla vaghezza delle ombre. E il dialetto è<br />
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