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ULISSE 7-8 - LietoColle

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tradurre anche su commissione, quasi a vendere la merce-lavoro di una propria (vera o presunta) perizia<br />

artigianale; si può voler tradurre per sperimentare nuovi modi di una personale lingua poetica e, infine,<br />

anche per qualche temeraria e allegra sfida dell’inosabile. Queste due ultime motivazioni potrebbero, per<br />

esempio, spiegare la mia traduzione in versi italiani dell’Evgenij Onegin di Puškin.<br />

Ma torniamo alla diacronia. Ed ecco che, rovistando tra le vecchie carte non ancora cestinate, trovo una<br />

mia, assai poco brillante, traduzione delle prime due sezioni di Ash Wednesday di T. S. Eliot, della cui<br />

datazione non sono completamente certo; doveva essere intorno al 1947, epoca in cui la conoscenza<br />

dell’inglese in Italia non era ancora abbastanza diffusa e la mia in ispecie si trovava a uno stadio più che<br />

primordiale… Ma come allontanare da me la tentazione di affrontare, con l’ausilio di un dizionarietto da<br />

conversazione, un testo di Eliot, a quel tempo il più celebre e celebrato poeta vivente di lingua inglese? A<br />

ben pensarci, il voler tradurre un gran de poeta è per l’aspirante-poeta anche un sotterraneo e non<br />

confessabile peccato da Paradiso Terrestre, un voler essere (insomma) “come Dio”, come lui; un<br />

proporsi, cioè, il poeta che si prova a tradurre come modello più o meno inconscio. Le mie nozioni di<br />

lingua inglese erano, lo ripeto, di una desolante povertà; non ero ancora passato attraverso i sei e più<br />

anni in cui avrei lavorato come traduttore (di prosa, ahimè, di propagandistica prosa!) in un ufficio<br />

americano dove l’inglese lo appresi, sì, abbastanza bene, ma un inglese, comunque, soltanto scritto e<br />

letto in silenzio… E invece sappiamo di quali sfumature foniche sia ricca quella lingua specialmente,<br />

trattandosi di poesia, in funzione della rima. Le mie traduzioni da Ash Wednesday le conservo ancora in<br />

una vecchia cartella, ma appaiono piene zeppe di tardive correzioni, quasi che io avessi voluto, in anni<br />

recenti, rendere più presentabili, se non addirittura recuperabili, quei miei giovanili esercizi. Migliore esito<br />

avrebbero avuto, di lì a poco, alcune traduzioni da John Donne, che infatti avrei poi inserito, senza<br />

bisogno di eccessive correzioni, in Addio, proibito piangere, un’antologia del mio lavoro di traduttore,<br />

messa insieme per invito di Giulio Einaudi. Ma fin qui la scelta degli autori da tradurre era avvenuta, da<br />

parte mia, in modo quasi del tutto casuale per suggestioni esterne, senza un’intima spinta. Trovo in una<br />

vecchia cartella testi di poeti illustri o meno illustri, famosi o meno famosi: un’unica poesia di Hopkins,<br />

uno o due frammenti di Robert Lowell, l’intera sequenza dei Voyages di Hart Crane (qualcuno doveva<br />

avermene segnalato l’importanza), alcune poesie di Emily Dickinson tradotte quasi per passatempo nello<br />

sfogliare verso il 1957 la splendida edizione critica del Johnson, versi di allora giovani poeti americani,<br />

come Viereck o Wilbur o Karl Shapiro, incontrati a Roma quando ancora ci abitavo e tradotti per atto<br />

amichevole o per accompagnare con quei loro versi un articolo, un’intervista.<br />

Tutto ciò, ripeto, è per sottolineare la causalità delle scelte che un traduttore di poesie si trova a<br />

compiere nella sua incerta carriera, tonto più incerta quando si trovi contigua o sovrapposta (come è<br />

stato nel mio caso) a un’ambizione di scrittore di poesie in proprio.<br />

Come fu, del resto, che m’imbattei in Ezra Pound del quale non avevo ancora letto, né in originale né in<br />

traduzione, nemmeno una riga? Forse perché commosso dalla sua (magari non del tutto immeritata)<br />

sorte di recluso, del quale il giovanissimo Vanni Scheiwiller stampava qui in Italia gli ultimi Cantos? Certo<br />

è che mi trovai a dover tradurre nel 1955 per un numero poundiano di una rivistina romana chiamata<br />

Stagione una delle poesie di Hugh Selwyn Mauberley, quella che nella seguente E. P. ode sur l‘élection de<br />

son sepulcre, inizia con un “Combatterono, in ogni caso” e che trae argomento dalla delusione dei reduci<br />

della Prima guerra mondiale, mandati al massacro per difendere quella che, nella traduzione fatta da<br />

Eugenio Montale della poesia che ad essa immediatamente segue, era una “scanfarda spremuta”, una<br />

“civiltà scassata”, per cui gli si poteva non dare, al vecchio “Uncle Ez”, pur con tutte le sue sciagurate<br />

bizzarrie, un minimo di ragione. Ma lasciamo andare. Il fatto è che, dopo quel mio primo misurarmi col<br />

Mauberley, durante una pausa di quasi disoccupazione a Torino decisi, chissà, forse per ingannare l’ansia<br />

o la noia, di tradurre tutto il Mauberley, benché non potessi dire di avere colto compiutamente il senso e<br />

il significato di non poche parti. Mi aiutai con un saggio-commento, quello dell’Espey, e riuscii a condurre<br />

a termine la piccola impresa. Luciano Anceschi, sempre nobilmente sensibile a tutto ciò che sapesse in<br />

qualche modo di avanguardia, pubblicò quella mia versione in uno dei primi numeri della rivista Il Verri, e<br />

Scheiwiller la riprese subito dopo in un volumetto, che presentammo a Pound appena rientrato in Italia<br />

dalla sua detenzione americana. La traduzione era piena zeppa di errori — errori, appunto, di significato,<br />

di senso — e Pound conosceva l’italiano abbastanza bene da accorgersene a prima vista; ma<br />

probabilmente doveva esserci, in quella versione, qualcosa di fondamentalmente fedele al “tono”<br />

dell’originale, non sbagliato, se il vecchio Maestro, notoriamente di carattere tutt’altro che facile, arrivò a<br />

ringraziarmi e ad apporre sul volumetto una dedica: “A G., il responsabile”, della quale però proprio<br />

adesso avverto la sottile ambiguità. Non avrà, infatti, voluto dire che ero io, e non lui autore<br />

dell’originale, il “responsabile” di tutte le sciocchezze e di tutti gli errori di quella traduzione? Ciò non<br />

toglie che, già con qualche emendamento, egli la volesse nell’edizione italiana delle sue Opere scelte,<br />

pubblicata da Mondadori nel 1970. Ma su quella traduzione sono ritornato parecchie volte nel corso di<br />

quasi un ventennio: oso sperare che l’ultima stesura del 1982, per emendare la quale mi giovai del<br />

consiglio di uno specialista poundiano come Massimo Bacigalupo, sia finalmente in regola. Ma, proprio a<br />

proposito del Mauberley, voglio ricordare un’indicazione che mi fu data dallo stesso Pound a proposito del<br />

passo in cui, nella poesia intitolata “Mr. Nixon”, viene riportata una citazione dagli Atti degli Apostoli<br />

secondo la classica versione inglese detta di King James: “Don’t kick against the pricks” dice il testo; e<br />

corrisponde in italiano a un “Non recalcitrate al pungolo”, che nella mia versione definitiva è “Al pungolo<br />

non recalcitrare”. Però sappiamo che in inglese la parola “prick” è anche, in un “parlato” volgare, il<br />

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