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ULISSE 7-8 - LietoColle

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membro virile; e questa sfumatura conserva naturalmente il suo peso nell’originale inglese della poesia.<br />

Nel 1963, incontrando per caso Pound a Padova, volli domandargli un chiarimento: “Signor Pound, quel<br />

‘Don’t kick etc.’ è una citazione dagli Atti degli Apostoli, ma nello stesso tempo ha anche un significato<br />

così e così… Come risolverlo?”. Pound, che in quegli anni si era chiuso in un mutismo quasi totale, mi fece<br />

la grazia di alcune parole in risposta: “Ma c’è” mi disse “una versione italiana degli ‘Atti”. Non ha molta<br />

importanza ricordare qui come quelle parole abbiano dato poi origine a un verso apparentemente senza<br />

senso di una mia poesia; ma quel che mi preme sottolineare è che l’indicazione di Pound era, come<br />

criterio di traduzione, assolutamente giusta. Egli non aveva manipolato il testo sacro in inglese. Che cosa<br />

era, infatti, più importante salvare di quella frase? La sfumatura oscena? O non piuttosto il riferimento,<br />

pur nel contesto di una materia profana, a un testo della Sacra Scrittura? Chiaramente Pound propendeva<br />

per questa seconda alternativa. Questo episodio mi porta a riflettere che, in fondo, il lavoro del traduttore<br />

di poesia si configura come una serie o successione di scelte, una serie o successione di costrizioni a<br />

rinunciare a qualcosa che è nell’originale e che non potrà essere nella traduzione se non al prezzo di<br />

sacrificare qualche altro valore di senso ancora più importante e magari decisivo, perché una certa<br />

“essenzialità” o “tipicità” dell’originale sia in qualche modo veicolata nella traduzione. Ma è proprio<br />

nell’affrontare certe scelte e nel passare attraverso le forche caudine di certe costrizioni che si definisce<br />

l’opera del traduttore di poesia; ed appunto perché consapevole di quello che per certe scelte e a causa di<br />

certe costrizioni egli ha dovuto tralasciare o alterare o “interpretare”, il traduttore saprà anche che il<br />

risultato del suo lavoro sarà comunque, rispetto all’originale, qualcosa di meno o di diverso.<br />

Fu con l’inizio degli anni Sessanta, e quindi anche in coincidenza con una meno incerta definizione della<br />

mia ricerca poetica, che mi si presentò la prima e più importante occasione di tradurre le poesie di un<br />

grande poeta, su commissione di un editore. Il poeta era Robert Frost, del quale conoscevo appena il<br />

nome, la fama e l’etichetta (pigra e pompier come tutte le etichette) di “poeta nazionale” americano.<br />

L’editore era Einaudi, e il tramite, Franco Fortini. Ma non credo che fosse stato proprio lui a fare il mio<br />

nome in una delle famose riunioni einaudiane del mercoledì; credo piuttosto (e forse fu, a dirmelo, lo<br />

stesso Fortini) che fosse stato Daniele Ponchiroli, al quale erano piaciute (sembra) quelle mie<br />

esercitazioni sulla Dickinson, sottopostegli da non so chi. Presi i Collected Poems di Frost e, senza<br />

nemmeno tentarne una lettura in originale che avrei potuto gustare poco o niente perché troppo<br />

assorbito dallo sforzo di capire il puro e semplice significato delle parole, cominciai a tradurre poesia dopo<br />

poesia. A guidare la mia scelta fu quasi esclusivamente il criterio della più facile traducibilità, oltre<br />

all’esigenza di tradurre un numero di poesie sufficiente a mettere insieme un libro che fosse, fra<br />

traduzione e testi a fronte, di decente spessore. Sicché tradussi in tutto sessantaquattro poesie, che<br />

vennero pubblicate nel 1965 con una mia breve premessa e col titolo Conoscenza della notte e altre<br />

poesie, mantenuto anche in una nuova edizione pubblicata ora presso Mondadori, con l’aggiunta di altre<br />

sei brevi poesie: anche in questa occasione, Massimo Bacigalupo mi ha molto aiutato a correggere non<br />

pochi errori della edizione precedente. Come si può vedere, forse per il fatto di non essere uno specialista<br />

di letteratura inglese o anglo-americana e di non dover dunque difendere una rispettabilità professionale<br />

e professorale, non ho nessuna remora a rendere di pubblica ragione un certo dilettantismo del mio<br />

approccio a Frost. Peraltro mi è stato assicurato che la scelta da me condotta secondo un criterio in<br />

apparenza piuttosto superficiale non era affatto criticabile, anzi rappresentava e rappresenta in modo<br />

adeguato i caratteri essenziali della poesia frostiana (il che mi induce a sospettare, sia pure con tutte le<br />

cautele e le eccezioni del caso, che anche il grado di traducibilità possa costituire un dato da tenere<br />

presente nel giudizio di valore su una poesia).<br />

Il mio tradurre poesia dopo poesia senza una lettura preventiva dell’insieme era certamente un po’ troppo<br />

avventuroso: davvero un inoltrarmi in un paese sconosciuto. Testo originale a sinistra, macchina per<br />

scrivere davanti a me e dizionario Webster sulla destra, traducevo in prima stesura quasi come se<br />

traducessi prosa, badando anzitutto ai significati letterali, di grado zero. Però, non so come, forse per un<br />

istintivo timor reverentiae di fronte al testo di un poeta famoso, non mi permisi, nemmeno nella grezza<br />

stesura, di alterare quella che (l’avrei imparato più tardi traducendo Il problema del linguaggio poetico di<br />

Jurij Tynjanov) è l’unità di base della lingua della poesia, cioè il verso: tanto che rimasi un poco<br />

meravigliato quando, a lavoro finito, Giulio Einaudi ebbe a lodarmi perché le traduzioni contavano lo<br />

stesso numero di versi che gli originali. E come altrimenti avrebbe dovuto essere? È vero che non poche<br />

traduzioni poetiche del passato (dette talvolta anche “imitazioni”) trasgredivano tranquillamente a quella<br />

che per me sembrava e sembra una norma irrinunciabile. Del resto, avrei in seguito riflettuto che della<br />

“lingua poetica” di un certo testo è parte e fattore anche il suo aspetto esterno, grafico.<br />

Ma la lingua inglese è, rispetto all’italiana, più sintetica, ricca di vocaboli mono- e bisillabici; cosicché i<br />

“miei” versi risultavano, rispetto a quelli di Frost, assai più lunghi, anche per la mia preoccupazione di<br />

sinotticità; ed ecco allora che dovevo dilatare in senso orizzontale quel che non dilatavo in senso verticale<br />

e risolvere le dieci o undici sillabe del blank verse inglese (che in Frost è prevalente) in misure sillabiche<br />

quasi sempre maggiori: di dodici, tredici, quattordici, quindici e magari diciassette sillabe. Ciò mi<br />

costringeva a cercare soluzioni ritmiche alternative rispetto a quelle consuete del nostro vecchio<br />

endecasillabo, ma sempre (un po’ “a orecchio”, per così dire) di una più o meno eguale “durata”<br />

prosodica. Questa esperienza (che avrei qualche anno dopo ripercorso nel tradurre, sempre su<br />

commissione, una scelta di quel classico e incantevole poeta fugitive che è John C. Ransom) fu per me<br />

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