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ULISSE 7-8 - LietoColle

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assai importe perché mi incoraggiò a trasferire tali soluzioni o soluzioni analogiche, orientate cioè su<br />

valori di “durata” prosodica oltre che meramente sillabica, nelle mie poesie.<br />

Qualcuno potrebbe ora sollevare l’annoso problema del come e del quanto un poeta possa essere<br />

influenzato dai poeti che traduce viceversa, possa trasferire sugli stessi una certa patina del proprio stile.<br />

Io dirò, per quanto mi riguarda, che spero di essere andato abbastanza esente dall’una e dall’altra cosa;<br />

ma subito aggiungendo che senza dubbio, sulla mia scrittura ha influito il mio “modo di tradurre” poesie<br />

di altri, e che le mie traduzioni riflettono probabilmente quel “modo di tradurre” assunto come la via<br />

meno improbabile a convogliare il senso poetico degli originali a me stesso e ad altri lettori della mia<br />

lingua. Comunque non bisogna essere troppo presuntuosi: una traduzione di poesia è pur sempre<br />

un’operazione che altera e diminuisce l’originale su cui si lavora e, anche nella migliore delle ipotesi, va<br />

accolta come una specie di “male minore”, in vario grado preferibile all’alternativa di una totale non<br />

comprensibilità. Con ciò non si esclude, anzi si raccomanda, l’utilità certe traduzioni cosiddette “di<br />

servizio” che si propongono a lettori capaci di “leggere” la lingua dell’originale, senza però comprenderla<br />

sufficientemente. Forse ci si aspetterebbe che io indicassi almeno un abbozzo di normativa sul “come-sifa-a-tradurre-una-poesia”;<br />

ma qui devo confessare, a parte la mia naturale diffidenza nei confronti delle<br />

normative in genere, l’estrema povertà del bagaglio teoretico, che poi si esaurisce quasi completamente<br />

in una memoria del già citato libro di Tynjanov e del suo concetto di “principio costruttivo”. Tynjanov dice<br />

che la lingua poetica risulta l’interazione di vari “principi costruttivi” come quello sintattico-semantico,<br />

quello ritmico, quello fonico, quello della rima, quello dei possibili riferimenti contestuali ecc. E in ogni<br />

poesia c’è (o dovrebbe esserci) uno fra questi principi costruttivi da ritenersi fondamentale, cioè<br />

irrinunciabile se non a costo di compromettere l’identità, l’esistenza della poesia stessa. Sappiamo bene<br />

che in questa materia non si può essere troppo categorici; ma in linea di massima credo che l’indicazione<br />

di Tynjanov costituisca ancora un piccolo, ma utile, vademecum per il traduttore di poesia, il cui primo<br />

compito sarà dunque di stabilire quale sia, nel testo poetico tradurre, il “principio costruttivo<br />

fondamentale”. Mi viene in mente quel sonetto del Belli che inizia col verso Ecco qua er bene come<br />

incomincio e va avanti per gli altri tredici versi terminanti in parola tronca, con un grande effetto<br />

dinamizzante per il lettore italiano di testi in lingua, che non è abituato alle frequenti ossitonìe del dialetto<br />

romanesco; ma, in qualunque lingua si dovesse tradurre tale sonetto, credo proprio che non si potrebbe<br />

non ravvisarne il “principio costruttivo fondamentale” in quella sprizzante e scintillante successione di<br />

versi ossitonici e si dovrebbe quindi fare assolutamente in modo da mantenerla, anche perché essa<br />

appare coerente col tema della piccola e sorridente vicenda erotica che del sonetto è occasione. Ma in<br />

tanti altri casi il “principio costruttivo”, più o meno “fondamentale”, sarà da ritrovarsi in altri ordini o<br />

“serie” della lingua poetica; ovvero potrà trattarsi di stabilire, anche nell’ambito di un singolo verso, ciò<br />

che appare essenziale a trasferire nell’altra lingua il massimo, tenendo fermo che l’impegno del traduttore<br />

di poesia comporta non una semplice traduzione di significati lessicali da lingua a lingua, ma una<br />

proiezione di senso da “lingua poetica” a “lingua poetica”, dove ispirazione, passione e invenzione<br />

potranno essergli preziose e forse indispensabili alleate.<br />

La passione fu quella che mi portò alle più arrischiate e temerarie prove di traduttore: dal cèco e dal<br />

russo. Il mio primo contatto con la lingua russa era stato nel 1966, quando per ragioni di lavoro avevo<br />

passato a Mosca più di un mese e, rientrato a Milano, mi ero messo volonterosamente a studiarla su una<br />

grammatichetta in francese intitolata Le russe sans peine. Gli amici di Mosca mi avevano parlato di Puškin<br />

col calore e con l’entusiasmo che soltanto i Russi possono avere quando la conversazione tocca il loro<br />

grandissimo poeta. Si era così fatto strada nella mia mente il fumoso, e soprattutto utopistico, progetto di<br />

conoscere un mio Puškin, un Puškin di prima mano traducendo io stesso e soltanto per me il suo<br />

capolavoro, Evgenij Onegin. Mi ero già procurato i dischi sui quali Vsevold Aksënov, un celebre attore già<br />

da anni scomparso, aveva inciso una splendida dizione di quell’irripetibile “romanzo in versi”; ma il mio<br />

progetto si era ben presto arenato sia per la difficoltà dell’impresa, sia perché (dopo un primo viaggio a<br />

Praga nel 1967) il mio interesse si era repentinamente rivolto alla lingua cèca. Mi aveva affascinato la sua<br />

impenetrabilità: come una pietra nera, durissima, levigata al punto da non consentire il minimo appiglio…<br />

E mi ero messo a studiare il cèco, su un’altra grammatichetta, questa volta in inglese. Quanto a divario,<br />

quanto a gap, tra il cèco e l’italiano, ce n’era assai più che rispetto al russo: in fondo la cultura russa,<br />

attraverso i grandi romanzieri del secolo scorso, non era affatto estranea anche agli italiani della mia<br />

generazione; né la scrittura cirillica rappresenta un problema per chi abbia a suo tempo studiato un po’ di<br />

greco. Ma a tradurre versi dal cèco non fui indotto da una mia personale scelta anche letteraria, bensì<br />

dall’esigenza creare un pretesto affinché le autorità cèche autorizzassero un mio amico, Vladimir Mikeš, a<br />

soggiornare in Italia per qualche tempo; e così avevamo deciso di tradurre a quattro mani una scelta di<br />

poesie di Jífií Orten, un poeta morto giovanissimo nel 1941 e mai tradotto nella nostra lingua. A facilitare<br />

l’attuazione del progetto presso l’editore Einaudi contribuirono in modo determinante due persone oggi<br />

non più vive: Italo Calvino e Angelo M. Ripellino. Il lavoro, piuttosto intenso, richiese circa un mese e<br />

mezzo: Mikeš leggeva il cèco, mi diceva il significato letterale in italiano e (dove necessario) mi<br />

specificava le varie ulteriori implicazioni di lingua poetica: rime, figure retoriche, ambiguità semantiche<br />

ecc. Io lo seguivo e andavo avanti passo passo, come procedendo in una fitta foresta, con gli occhi<br />

bendati e tenuto per mano. Ancora oggi, non credo che La cosa chiamata poesia (questo è il titolo della<br />

scelta pubblicata nel 1969) sia un libro da trascurare… Ma la mia passione per la lingua cèca non si esaurì<br />

a quel punto: insieme ad altri amici praghesi si era progettato di mettere insieme un’ antologia di giovani<br />

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