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ULISSE 7-8 - LietoColle

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shall besiege […] and dig” (laddove Ungaretti traduce: Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua<br />

fronte / Scavando trincee fonde […]”)(7). Si va dalla rifrazione semplice di un termine (ancora in II.:<br />

“sconveniente encomio” – “maggiore encomio” dei vv. 8-9, a rendere “thriftless praise” e “more praise”;<br />

o in CXXIX.: “delirantemente ricercata” – “delirantemente detestata”, vv.6-7, per “Past reason hunted” –<br />

“Past reason hated”), ai chiasmi (LXIV., v.8: “accrescendo guadagno con perdita e perdita con<br />

guadagno”, per “Increasing store with loss, and loss with store”); sino a giungere a un più complesso<br />

articolarsi del periodare sintattico (in LXIV, vv.1-3-5-9: “quando io ho veduto”, “quando talvolta le vedo”,<br />

“quando io ho veduto”, “quando io ho veduto”, per “When I have seen”, “When […] I see”, “When I have<br />

seen”, “When I have seen”).<br />

Si potrebbe continuare: ma è meglio leggerseli, questi sonetti, di prima mano, per coglierne, intendo,<br />

proprio dal vivo, sulla carne viva della resa letterale, la concretezza delle soluzioni proposte. Una poesia<br />

“praticabile” diviene quella di Shakespeare: come quando “to be new made” di II. si rende proprio con<br />

“essere fatto nuovo”, al riparo dell’ungarettiano, assolutizzato, “rinnovamento”, e “old” e “cold”, in<br />

chiusura dello stesso sonetto, significano null’altro che “vecchio” e “freddo” (in posizione finale,<br />

quest’ultimo aggettivo, contrapposto ossimoricamente a un “caldo” – “e vederlo caldo, il tuo sangue,<br />

quando già lo sentirai freddo” - che l’anticipazione proclitica della particella rende di immediata, realistica<br />

fruibilità visiva). O in CXXIX. basta l’aggiunta di un dimostrativo (“questo cielo”, nel primo emistichio del<br />

verso 14) per creare, oltre che un perfetto parallelismo con l’”inferno” che segue, una più diretta e per<br />

nulla enfatica raffigurazione dell’umana sorte e dei suo sogni fallaci:<br />

“tutto questo lo sa bene, il mondo, eppure nessuno sa bene<br />

sfuggire a questo cielo, che porta gli uomini a questo inferno”<br />

“All this the world well knows yet none knows well,<br />

To shun the heaven that leads men to this hell”.<br />

Sarà anche vero che il traduttore non è che un “puro mediatore linguistico”, anzi “un mezzo, un medium,<br />

un mediatore, un mezzano”, un interprete impossibilitato “ad annichilirsi a fondo”. Un<br />

“traduttore/traditore”, insomma, come piace a Sanguineti definirsi, che “volente o nolente”, lo brucia, il<br />

testo d’origine, e “senza residuo”(8). E però si gode a seguirlo, nelle sue acrobatiche invenzioni verbali<br />

che penetrano a fondo nello spirito e nella carne dello “scespirismo” e lo restituiscono nei modi di un<br />

divertito abbassamento tonale (“due amori io tengo”, in CXLIV, ove si apprende anche che “il mio angelo”<br />

– la “passion”, insomma, del poeta - “sta mutato in demonio”) o di calibrate, concettose, virtuosistiche<br />

proposte che delineano sulla pagina, con fedeltà piena, la “condizione manierista della contemporaneità”<br />

(di Cortellessa la definizione (9)). Una contemporaneità intrisa di tradizioni, stratificate nel derma, nel<br />

corpo della parola, nel suo tessuto linguistico, sintattico, metaforico, pure se la traduzione pare destinata,<br />

come suggerisce l’autore, a sottolineare una “invalicabile distanza” dal testo di partenza.<br />

Basterà scorrere, ancora, il sonetto XLIII., tra tutti il più concettosamente petrarcheggiante, non fosse<br />

altro che per l’estensione sinonimica dei lemmi della visività e della sua negazione (si va dagli “occhi”,<br />

dalla loro “luminosità”, al “sogno”, all’“oscurità”, all’”ombra”; dal “mostrare” e dall’”apparire” alla<br />

condizione di cecità, dal “giorno” alla “notte”). Uno Shakespeare mascherato da Petrarca e un Petrarca<br />

rifratto sanguinetianamente è il risultato: ed è qui che il travestimento raggiunge punte di autentica<br />

maestria. Come quando il traduttore gioca sul plurisenso di un vocabolo (“happy show”, al v.6: un vero<br />

“spettacolo felice”, per lui), o dà forza a un’epifania onirica isolando a fine verso il lemma che la veicola,<br />

potenziato di senso da uno “stare” (“stay”) a un “apparire” petrarchescamente, ma poi anche<br />

leopardianamente, connotato (“quando, nella morta notte, la tua bella ombra imperfetta, / attraverso il<br />

sonno profondo, ai miei ciechi occhi appare!”; in inglese: “When in dead night thy fair imperfect shade /<br />

Trough heavy sleep on sightless eyes doth stay?”).<br />

E sarà il caso poi di rileggersi i due versi finali, che la contrainte obbliga al più rigoroso rispetto fonico,<br />

timbrico, lessicale, ma che nella loro piana, normalizzata, discorsiva cadenza, riconducono senza<br />

apparente scarto al poeta delle “petites proses en poème”:<br />

“tutti i giorni sono notti, a vedersi, finché non ti vedo,<br />

e le notti giorni luminosi, quando i sogni ti mostrano a me”<br />

“All days are nights to see till I see thee,<br />

And nights bright days when dreams do show thee me”.<br />

Non occorre commento. Forse ha ragione, ancora una volta, Sanguineti: “Che alle spalle si dia un testo,<br />

alla fine, è un accidente”. Non solo. Ma che “quel testo possa mai trasparire, in qualche modo, è finzione<br />

culturale acquisita e socializzata”. D’accordo. Ma è, quell’accidente, fortunato e fertile, se costringe a<br />

mettere a prova la parola nelle sue potenzialità infinite, rendendo gestuali sino le interpunzioni – come<br />

quella aggiunta al testo inglese, quasi senza parere, nel verso finale di XCI., che conferisce una carica<br />

gestuale alla drammatizzazione dell’assenza, spazializzandola, la perdita (“infelice in questo, soltanto, che<br />

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