L’idea o immagine di "installazione" è solo una metafora: ma è utile. Non si può attribuirle valore definitorio o eccessiva stabilità e funzionalità; ma nemmeno è inutile o assurda. Dà conto - appunto come metafora e immagine, non come descrizione - di un modo di fare letteratura. Un tipo di scrittura installativa esiste, è diffusa, è scritta e letta. C’è. È COME una scritta sul muro. Si è liberi di leggerla, valorizzarla, o no. In nessuno dei due casi essa smetterà di esistere, né di emettere senso (per chi vuole avvertirlo). Marco Giovenale 12
QUALE LINGUAGGIO PER QUALE POESIA, OGGI? QUALE LINGUAGGIO PER QUALE ESPERIENZA, OGGI? Credo che “linguaggio”, al singolare, sia una pratica che non è mai esistita, né storicamente né poeticamente. Limitandoci alle origini della tradizione in volgare, è evidente infatti che, nel secolo della poesia cortese, si rimava in molti altri modi, da quello comico parodico, allo stilnovo, dall’umbro francescano, alla poesia didattica e religiosa dell’Italia settentrionale. A queste forme dell’immaginario, corrispondeva poi, in una relazione niente affatto meccanica, una stratificazione sociale, geografica e di potere tale da aprirci una complessità linguistica salutare, che la distanza dall’oggi ci permette di approfondire senza l’urgenza che anima la domanda preliminare. Perché la questione del linguaggio mi pare nasca, in questa sede, da un sentimento di comprensibile preoccupazione, effetto di un reale impoverimento semantico entro la società tardo capitalistica e dalla triste emarginazione della poesia italiana contemporanea, linfa in apparenza vitale entro la scorza della comunità, ma invero assente nei luoghi che contano: fuori dal mercato, fuori dal Parlamento, fuori dai media d’informazione. “Quale linguaggio per la poesia, oggi”, pur contenendo molte altre questioni interessanti (per chi scriviamo? Da quale serbatoio ideologico attingiamo? Che cosa significa scrivere ‘poesia contemporanea’?) è una domanda fuorviante perché pensa alla realtà come sostanza unica e omogenea, che trova nell’eccellenza di una lingua la chiave di volta del disvelamento, laddove invece, come accennavo all’inizio, l’apertura storico-linguistica è plurale, stratificata, conflittuale, e dunque non può che essere detta negli infiniti modi della singolarità, anche in quelli più banali. Anzi, in quelli più banali, l’apertura mostra meglio che altrove la propria superficie, il canto omologato che ci vorrebbe assoggettati a valori condivisi e spesso mediocri. Non si tratta, allora, di dire semplicemente l’apertura (a meno che non si sperimenti una poesia volutamente e criticamente di superficie), ma di mettere a dimora il nocciolo della nostra/non nostra singolarità, dopo averlo parzialmente spogliato (integralmente è impossibile) dei “si dice”, dei “si fa”, di quel Sì, insomma, che in Heidegger di Essere e tempo diventa il mondo dell’inautenticità. Il poeta, in questo senso, deve cercare la propria declinazione, la voce che meglio coniughi la complessità, in un canto unico eppure attraversato dalle fibre dell’esperienza comune. Sbagliato sarebbe credere che questa voce, oppure quella che si muove in superficie, si conficchi al centro di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la più vicina al modo in cui il vero s’incarna nella realtà di oggi. Io credo che non ci sia un vero che primeggi ante litteram, un vero preliminare, ma semmai che esso si dia, anche, come effetto di una costellazione poetica, a patto che quest’ultima sia “onesta”, per dirla con Saba, ossia sgorghi da un progetto abbracciato con passione, verso il quale ci si rimette con il metro dell’intelligenza e dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo, senza mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il testo così forgiato sia degno di rispetto, ma senza idolatrie: è questa, credo, la via da seguire. E quando dico “con la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo” intendo sottolineare l’infinità delle strade percorribili, perché, se preferisco la poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il cinema di Lynch a quello di Rossellini, la pittura di Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un dato modo oppure in un altro, la lingua in fieri (quella che de Saussure chiama “Langue”) sboccerà diversamente, si farà “parola” nuova e imprevedibile anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello nato dall’incontro di differenti radici con la creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza, tanto più quanto la poesia (e la scienza e la filosofia e il senso comune) districheranno un significato credibile dalla muta verticalità delle cose. Dovremo tuttavia chiederci di quale forma d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto che quella dominante, oggi, è di tipo intellettivo, d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere dei sensi (“i profumi, i colori e i suoni” delle corrispondances baudelairiane) e sia l’articolazione delle mani, per radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una dimensione, che ora vive – ancor più di quello marcusiano – un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e costantemente aggiornati, privi di teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e castrante) nei Paesi del tardo capitalismo, allora interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla contemporaneità, significa anzitutto riconoscere che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da saturare le esperienze legate al sapere calcolante, mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo che certa poesia, appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a queste due esperienze lacunose una lingua e una sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e disfarsi continuo del presente – mi pare sia l’azione spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è fondamentale), la sua eticità. Stefano Guglielmin 13
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a figgia, lenta, a se ne va de sche
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che a tegnerle insieme se fa un mur
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fammi lenta di lento respiro che si
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