ULISSE 7-8 - LietoColle
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anche cou, a non dire del suono (più sordo che cupo) ha profilo basso, dozzinale. Ed è maschile (sarebbe<br />
un disastro ignorare questa differenza di gender) È sorprendente quanto sia generica la terminologia<br />
meneghina delle attività pensative! E allora, parendomi che il dolore derivante dallo scacco subito dal<br />
pensiero sotto l’influsso di amore, fosse, in milanese, di difficile collocazione ho preferito ribadirne la<br />
presenza con un rafforzativo modale. Talment si offriva spontaneamente allo scioglimento della difficoltà.<br />
Da un lato il suono del significante ment si fa sentire chiaro e tondo. Dall’altro, rintanato nella sua culla<br />
avverbiale, non rischia di arrogarsi funzioni incongrue. In sostanza, il fatto di evitare la presunta<br />
specularità in cui sarebbe facile cadere (mente = ment) mi sembra che consenta alla lingua ospitante di<br />
mantenere viva la peculiarità di quella ospitata.<br />
La smania del tradurre dal toscano in milanese (di Porta Ticinese), ma anche dallo scrivere direttamente,<br />
e con rigore filologico, in dialetto (vedi Che Oror l’Orient) (12) si è alla lunga tramutata in voglia di<br />
sapore regionale, e anche adesso con la Trilogia germanica (i primi vagiti sono apparsi nell’ultimo numero<br />
de l’Almanacco dello specchio) sto cercando di fabbricarmi uno strumento che non dissomigli da quello<br />
che aveva in testa il Baldassar Castiglione quando scriveva che era meglio scrivere da lombardo essendo<br />
lombardo piuttosto che come toscano non essendolo. Ma questo col tradurre c’entra poco per cui passerei<br />
senz’altro alla quarta insula del mio arcipelago di traghettatore.<br />
E qui si parlerà del mio ruolo di facilitatore e di consulente (ruolo in cui mi trovo calato sempre più<br />
spesso, e che non è slegato da quello di docente di testi poetici contemporanei). In questo settore<br />
dell’andirivieni tra italiano e inglese la superficialità è talmente diffusa che viene da piangere. Per un<br />
eccellente Michael Moore o per una straordinaria Murtha Baca ci sono decine di rimestatori e grassatori da<br />
strapazzo. Di commettere errori, anche grossolani, capita a tutti (me compreso). Ma come si dice, est<br />
modus in rebus. Il problema non nasce mai dal non sapere, ma dalla presunzione di sapere. Insomma c’è<br />
al mondo un sacco di gente che pensa di conoscere la lingua da cui traduce, la quale, contrariamente a<br />
quel che sostiene Diderot – in un suo fine paradosso, e cioè che non sia necessario intendere una lingua<br />
per tradurla, in quanto che la si traduce per dei lettori che ne sono digiuni anche loro – non rilascia i suoi<br />
segreti se non a patto di esercitare su di essa una curiosità anche maggiore di quella con cui ci si<br />
dovrebbe rapportare a quella in cui si traduce.<br />
Ma questa condizione di totale ignoranza è, ai tempi nostri, insostenibile. Le spie (non quelle che vengono<br />
dal freddo, ma quelle linguistiche) sono dappertutto e a portata di mano. I muri hanno non solo orecchi,<br />
ma anche occhi. E, allora, per fare un esempio tra mille, se Adriano Spatola usa, in un suo breve<br />
componimento, il verbo stagliare (nel senso che si può stagliare contro il cielo il profilo di qualche cosa) e<br />
il suo traduttore americano lo rende con il verbo to slice (tagliare, fare a fette, come se si trattasse di un<br />
salame di Varzi), ne nasce sicuramente ilarità, ma è dubbio che essa basti a compensare dell’offesa<br />
inflitta al testo originale (nonché alla memoria del poeta scomparso). Né il consuntivo diventa meno<br />
catastrofico quando si prendono in esame le traduzioni dei poeti americani contemporanei fatte “alla<br />
macchia” in Italia, cioè da editori tipografi volonterosi, ambiziosi e impreparati. Generosi ma impertinenti.<br />
Con loro non ci si allontana mai troppo dagli esilaranti equivoci degli anni cinquanta quando gli<br />
appuntamenti mancati (missing dates) potevano diventare datteri mancanti (missing dates) e i cepugli si<br />
poteva batterli attorno (to beat around the bush) ogni volta che si intendave menare il can per l’aia (to<br />
beat around the bush).<br />
Ma per restare con i poeti italiani in America vorrei segnalare un problema costante che si ripresenta<br />
puntualmente grazie alla “naturale” proletticità del discorso italico: non si tratta neanche tanto di<br />
rispettarlo. Basterebbe accorgersi della sua presenza e misurarne di volta in volta la pregnanza eristica. È<br />
chiaro che nei casi in cui due letture sono possibili, una prolettica e una no, prendere a destra piuttosto<br />
che a sinistra (nel tradurre) può essere questioni di vita o di morte testuale. Prendiamo il caso di un<br />
classico testo ungarettiano: l’amore non e’ più quella tempesta etc. Nella prima strofa il poeta denuncia il<br />
venir meno delle battaglie amorose e si chiude con la presenza di una virgola di sospensione seguita da<br />
un cospicuo spazio bianco. La seconda strofa attacca con un verbo: balugina da un faro verso cui va<br />
tranquillo (cito a memoria) il vecchio capitano. Il problema non potrebbe essere più chiaro: o balugina è il<br />
predicato verbale di amore (quello lontanissimo della prima strofa) oppure è il predicato del vicino (e<br />
prolettico) vecchio capitano. Nel primo caso il testo non dice nulla di sorprendente. Non è che la conferma<br />
di una deplorevole e verificabile condizione umana: più vecchiezza = meno tempeste amorose. Nel<br />
secondo caso abbiamo invece un capitano che balugina e che va verso un luogo (il faro) da cui viene.<br />
Questo ha tutta l’aria di un busillis più redditizio, più produttivo. Intanto è magnifico che un capitano<br />
balugini assorbendo in sé, sia pur debolmente, la luce di un faro. E poi che stupenda ed energetica<br />
contraddizione in questo flebile ma lancinante desiderio di rifare la strada a ritroso, desiderio che può<br />
sprigionarsi solo se i versi vengono letti e accolti, prima di tutto, per il modo in cui sono stati scritti e<br />
battuti e giostrati e forgiati.<br />
Alla luce di esperienze di questo genere ho accettato di fare da spalla a Patrick Rumble dell’Università del<br />
Wisconsin, che è alle prese con una nuova versione di Girl Named Carla di Elio Pagliarani. Farà parte di A<br />
Girl named Carla and Other Poems che uscirà presso Agincourt (New York), nell’autunno di quest’anno.<br />
E adesso, per concludere, la testimonianza doppia. È doppia perché coinvolge il poeta e traduttore<br />
americano Paul Vangelisti. Lavoro con lui ... o è lui che lavora con me? Chi di noi è Gianni e chi di noi<br />
Pinotto? Ce lo siamo chiesti spesso, dopo lunghi e perniciosi conflitti. Sono ormai anni che collaboriamo<br />
sui due versanti del crinale e siamo ormai convinti che le traduzioni a quattro mani si facciano non tanto<br />
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