ULISSE 7-8 - LietoColle
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LA METAFORA OBLIQUA DI MORESCO<br />
Considerando come, e quanto programmaticamente, la scrittura di Moresco sappia divincolarsi dalla<br />
stretta dell’antinomia poesia-prosa, non può stupirci il fatto che uno dei suoi istituti fondamentali sia<br />
rappresentato dalla metafora. Al riguardo vorrei per un momento soffermarmi sulla celebre definizione di<br />
questo tropo come onomatos allotriou epiphorà fornita da Aristotele nella Poetica (1457 b 10): la<br />
metafora consiste nel “ricorso a un nome d’altro tipo”, nel “trasferire a un oggetto il nome che è proprio<br />
di un altro”, nel “trasferimento ad una cosa di un nome proprio di un’altra”, traducono rispettivamente (e,<br />
del resto, in modo impeccabile) Gallavotti, Lanza, Pesce. La versione italiana (“trasferimento”) non<br />
accoglie però una sfumatura decisiva del sostantivo epiphorà: perché se è vero che il verbo epiphéro da<br />
cui esso deriva significa in primo luogo “portare su, verso”, “to bear upon, further”, una delle sue<br />
accezioni, secondaria ma non certo trascurabile, è quella di “portare contro”, “bring against”, “assalire”.<br />
Proprio in questo senso epiphéro viene per esempio usato da Omero nell’Iliade (ou tis … soi … bareias<br />
cheiras epoisei: “nessuno … ti … metterà le mani addosso”, I, 88-89), mentre nella medicina antica<br />
l’epiphorà designa, tra l’altro, l’”assalto” della febbre (correntemente, invece, questa parola denomina<br />
una patologia peculiare dell’occhio provocata dall’eccesso di secrezione lacrimale). Nella terminologia<br />
aristotelica sembra sottesa un’idea di ostilità e di debordante aggressività che segna la distanza più netta<br />
sia dalla visione della metafora come giustapposizione di saperi, sia da quella che la riduce a ornamento<br />
sovrastrutturale del discorso. Non semplice “trasferimento” di nomi, la metafora costituirebbe piuttosto,<br />
in questo tentativo di lettura, il prodotto di un’irruzione, di un flusso minacciosamente indistinto di<br />
materia e senso verbale: o anche, per usare un termine molto caro a Moresco, di una invasione. In<br />
Moresco la frequentissima irruzione di metafore e, a tratti, la loro proliferazione assumono costantemente<br />
i connotati dell’obliquità, di un agire distanziato, differito o indiretto che si esprime con la mediazione del<br />
genitivo - come nel classico precedente dantesco di Purg., I, 2: “la navicella del mio ingegno”. E’<br />
soprattutto la seconda parte dei Canti del caos (uscita presso Rizzoli nel 2003: da qui sono estrapolate le<br />
citazioni che seguono) a squadernare un abbondante campionario di metafore oblique che, con un esprit<br />
de systeme spero discreto, può essere segmentato in almeno una decina di aree archetipiche: la sfera<br />
(bolla, globo ecc.), che molto spesso investe oggetti come televisori e terminali (come a p. 14: “le bolle<br />
dei video”) ma può anche riguardare la pancia e il ventre: “la grande sfera del ventre” (p. 52); il calco,<br />
che interessa lo spazio e l’aria: “nel calco dell’aria immobilizzata” (p. 274); la catastrofe: “sotto la<br />
catastrofe della volta celeste” (p. 240), “nella catastrofe dell’annuncio” (p. 393); la voragine (cratere,<br />
buco nero), perlopiù con riferimento alla bocca (“il cratere della sua bocca tatuata”, p. 331), ma in<br />
qualche caso alla creazione e alla visione: “nel cratere della creazione e della visione” (p. 298); il<br />
passaggio stretto (il filo, il nastro, l’imbuto ecc.), nel cui àmbito rientrano p. es. la strada (“verso il nastro<br />
di una strada più grande”, p. 201) e ancora la bocca (“nell’imbuto della sua bocca aperta”, p. 266); il<br />
bozzolo (involucro, nicchia, sacco, scrigno, scafandro): “il bozzolo della sua testa” (p. 58); la maschera,<br />
riferita a testa, faccia, volto: “le maschere ottuse dei volti” (p. 249); la pietra (macigno, massa,<br />
mastodonte), ancora per il cranio e la testa: “il mastodonte della mia testa” (p. 197); la poltiglia (colla,<br />
polpa, schiuma, melma, grumo), con un raggio di applicazione svaria dalla luce alla bocca,<br />
dall’aria/atmosfera (“nella poltiglia dell’atmosfera”, p. 360) alle automobili, dalle radiazioni all’annuncio<br />
(“la polpa increata di questo annuncio”, p. 231), ecc.; il proiettile (bolide, freccia, meteora, meteorite,<br />
mitragliatrice, cuspide), in molti casi combinato con il cranio o con la testa (“il bolide della sua testa<br />
rovesciato e puntato”, p. 398) e con la visione (“da dove nasce il proiettile della visione?”, p. 297). Quale<br />
conclusione ci suggerisce questa veloce e certo incompleta ricognizione testuale? La scrittura di Moresco<br />
non tende soltanto a una tipizzazione (e non esattamente nel senso lukacsiano del termine…), cioè a una<br />
stilizzazione in chiave formulare di linguaggio e di visioni tale da avvicinarla all’epos, ma inoltre,<br />
riconoscendo nel mondo l’immanenza di forme e strutture che tornano ciclicamente, si assicura la<br />
possibilità di cantare il caos.<br />
Giampiero Marano<br />
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