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ULISSE 7-8 - LietoColle

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con ducere, indica l’atto del trasportare e far passare, ossia il verbo ferre, il suo composto transferre e il<br />

sostantivo derivato translatio, possedevano e possiedono il significato di tradurre (secondo l’esempio di<br />

Quintiliano transferre ex Graeco in Latinum). Primo fra tutti Bruni utilizzò il termine tra(ns)ducere nel<br />

significato posseduto da transferre, impiego che è stato definito dal linguista J.-Ch. Vegliante néologique,<br />

conscient nonché heureux, vista la fortuna che la storia gli ha tributato; inoltre, Vegliante lo addita quale<br />

«caso esemplare di traduzione creatrice» (6).<br />

Tradurre è, dunque, far accadere un trasferimento di senso; tradurre è anche attingere alla potenza della<br />

metafora, della metonimia… Non si tratta soltanto di passare – tramite vocaboli o lessici sempre più<br />

specifici ed aggiornati – ad una lingua che è altra, o un rendere disponibile a tutti, ma è un mettere sul<br />

tavolo la posta in gioco del testo da tradurre, la sua complessità, il suo senso e la sua storia. È desiderare<br />

che nella banalità espropriante si acceda al proprium del testo e del suo linguaggio. «Dimmi come<br />

consideri la traduzione e ti dirò chi sei», scrive Heidegger concludendo la Nota sul tradurre redatta allo<br />

scopo di motivare la sua traduzione del coro dell’Antigone di Sofocle (7) (vv. 332-375), in particolare il<br />

celebre neutro tÕ deinÒn, che propone di intendere come «l’inquietante, das Unheimliche» (8). Come<br />

intendere l’ossimoro di una banalità espropriante cui è affidato l’accesso al proprium (del testo e del<br />

linguaggio)? In fondo è questo che l’esperienza della traduzione insegna a chi traduce: quando si è<br />

costretti a dire altrimenti ciò che si è detto; quando si è “costretti” a ripetere ciò che si vuole o deve dire<br />

– insomma, quando si traduce testi e linguaggi o ci si traduce per farsi comprendere meglio, sempre si<br />

parla ad altri per parlare meglio di sé a sé, per accedere – tramite il proprium di altri – al proprio<br />

proprium. Per questo si scrive, si pubblica e si rende pubblico ciò che si ha da dire: perché nella banalità<br />

che estende qualcosa all’uso comune ci si appropri realmente di sé; di quel sé che è veramente sé<br />

quando si comunica, si scopre e riscopre in ciò che dice, scrive e traduce. Insomma, in altro. L’esperienza<br />

e la traduzione come esperienza sono questo banalizzarsi per tornare a sé. Per tornare ad un proprium<br />

altrimenti non conosciuto, non detto. Al proprio incomprensibile.<br />

È l’esperienza di traduttori divenuti essi stessi teorici della traduzione, come nel caso di A. Barman (9); è<br />

anche l’esperienza di poeti, scrittori e filosofi che si sono cimentati nella traduzione, dei quali evitiamo di<br />

proporre l’elenco e la serie di “esempi” che normalmente viene aggiunta, a conferma dell’ipotesi proposta<br />

e sostenuta, a questi nomi (10). Perché tradurre? Sicuramente perché «nessun problema è più<br />

consostanziale con le lettere e col loro mistero di quello che propone una traduzione»: tradurre significa<br />

portare alla luce l’infinita varietà di un testo, mai definitivo e definitivamente conchiuso (11). Di più, ha<br />

osservato Caproni, non c’è differenza “tra lo scrivere e l’atto che, comunemente, è chiamato tradurre”; e<br />

ancora «tradurre è disporsi all’avventura che suscita, in chi rilegge e trascrive la parola altrui, quanto in<br />

lui stava occulto al suo fondo» (12). Si traduce affinché il testo sia sempre e di nuovo. Non è questo,<br />

però, il solo motivo. Si diceva che l’esperienza e la traduzione come esperienza sono un banalizzarsi per<br />

tornare a sé, per tornare al proprium del testo e, tramite ciò, a quel proprio proprium che non è mai il<br />

risultato di una appropriazione definitiva ma che è il segno dell’incessante divenire, noi stessi, ciò che si<br />

è; incessante divenire che accade grazie ai transiti e passaggi quotidiani che compiamo, vivendo.<br />

Una novella tanto amata da chi scrive di traduzione è La ricerca di Averroè di Borges. Novella amata dai<br />

traduttori ma che, in realtà, racconta di uno scacco, di una mancata traduzione. Averroè non riesce a<br />

tradurre in arabo i termini aristotelici “tragedia” e “commedia” perché «chiuso nell’ambito dell’Islam»<br />

(13), non riesce neppure a comprendere a che cosa tali termini (peraltro «impossibili da evitare» (14))<br />

possano corrispondere. Alla fine, dopo una cena e dopo l’ascolto di vari e strani racconti dei commensali,<br />

giungerà alla conclusione che «Aristotele chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi.<br />

Le pagine del Corano abbondano di meravigliose tragedie e commedie» (15). Ma la vera “posta in gioco”<br />

non è trovare la parola che dica quasi la stessa cosa; questa “posta in gioco”, Borges ce la rivela soltanto<br />

alla fine della novella: «Sentii, giunto all’ultima pagina, che la narrazione era un simbolo dell’uomo che io<br />

ero mentre la scrivevo e che, per scriverla, dovevo diventare quell’uomo e che, per diventare questo<br />

uomo avevo dovuto scrivere quella storia, e così via all’infinito» (16). In fondo, la posta in gioco è il<br />

mistero che il linguaggio del testo custodisce. È il mistero del sé, di chi scrive e traduce.<br />

Ed è ancora questo sé ad essere in questione nelle parole di un poeta-traduttore, Y. Bonnefoy, per il<br />

quale l’inevitabile scacco della traduzione è la fonte di sempre nuovi e felici incontri: traduttori e opere<br />

tradotte formano, infatti, una comunità nella quale i primi, lungi dal tentare di rimediare al disastro<br />

provocato da Babele, cercano proprio nelle differenze «ciò che possiamo chiamare Io», ossia, «quella<br />

capacità di essere al mondo tanto più originale quanto virtualmente più universale»; “capacità di essere<br />

al mondo” che Bonnefoy chiama Io nel senso in cui «Rimbaud dice “Io è un altro”» (17). Il problema del<br />

traduttore è, allora, questo Io capace di de-figurare l’io finito, che il francese indica con moi. Il termine<br />

de-figurare è coniato a partire da figure, volto e dal prefisso de-, che indica privazione ma anche<br />

intensificazione – come, ad esempio, de-nominare, ossia dare nomi sempre nuovi e diversi. Ecco quanto<br />

si dà e accade nella traduzione: il mistero di un linguaggio che si arricchisce, di un’opera che<br />

banalizzandosi diventa sempre e di nuovo se stessa, linguaggio e opera nei quali “chi è” tradotto e “chi<br />

traduce” passano l’uno attraverso l’altro facendo affiorare le novità ancora intentate ed inviste di quanto<br />

si dà da tradurre. La banalizzazione, il “diventare di tutti” non è un perdersi del linguaggio, del testo,<br />

dell’autore, né è un ripetere (da parte del traduttore). È un andare e tornare, è transito, passaggio,<br />

fors’anche rischioso e periglioso, nel quale l’altro entra nel proprio; nel quale il traduttore, appropriandosi<br />

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