sintassi che aiuta a dissipare, di fronte alle parole e in esse, quanto intralcia l’adæquatio rei et intellectu... Da ciò seguirebbe che — ecco tre parole veramente francesi — il tipo di temporalità, che porta dall’inizio alla fine della frase, non sarebbe il calco di alcunché nell’ordine dei fenomeni — tempo del vissuto, tempo dell’acquisizione di un pensiero — ma una struttura inerente all’idea del mondo, con uno sguardo rivolto agli sviluppi collaterali di questa stessa idea, cosa che fa dell’intera frase, del paragrafo e del libro, veramente un’architettura, che appartiene, in effetti, già un poco allo Spirito, bellezza tanto quanto verità. Capisco che ciò irriti, perché nessuno accede all’ adæquatio della cosa e dell’intelletto; questo fa sì che la frase vissuta in tal modo non sia che un sogno, che può aver luogo solo a prezzo di semplificazioni se non addirittura di distorsioni, nel momento in cui, proprio al contrario, si lascia intendere di aver penetrato tutto, tutto compreso e riordinato. Sotto l’apparente rigore si nascondono, nella frase lunga di moltissimi saggisti, concetti senza autentica presa sul reale, e il sogno non potrà essere protratto se non da una soggettività sempre più dissimulata, cosa che si può considerare prossima sia all’ingenuità che all’arroganza. Di fronte a tale pratica della parola, la frase breve dello scholar — soggetto, verbo, complemento e il minimo indispensabile in più — può apparire più veritiera: e colui che l’ha forgiata può credere di aprirsi più efficacemente alla verità, nei limiti meno ambiziosi che avrà avuto ragione di assegnarsi. Viene detta una cosa, ma con pochissime parole, vale a dire con pochissime idee, affinché si abbia modo di percepire e soppesare tutto di esse nel momento in cui — subito dopo la frase breve, tenuta ben ferma dal punto — la realtà interrogata acquista il suo diritto di replica, per mezzo di qualche nuovo osservatore. Saremmo così in presenza di una dialettica del pensiero e della sperimentazione, che tenderebbe a svincolare lo spirito dal suo sogno di signoria illimitata, vale a dire di soggettività senza controllo; saremmo in presenza di un empirismo, che andrebbe solo con grande prudenza da un punto solidamente stabilito — o in ogni caso sottoposto con chiarezza alla vantazione collettiva — a un altro ugual mente verificato o verificabile. Ed è del tutto naturale che, in simili condizioni, da una frase all’altra, o da una parte della frase alla seguente, non si coordini, non si cerchi nemmeno di articolare, anzi si provi quasi avversione per i di conseguenza o i cosicché: infatti, non spetta all’autore del testo passare da una proposizione all’altra, ma al lettore che, essendo esterno al testo, ha il compito di testimoniare in vece della realtà indagata, di verificare se il suo diritto di replica è stato davvero rispettato, e in seguito di operare o meno la deduzione lasciata virtuale. Chi scrive non deve catturare il lettore nella rete delle sue congiunzioni, soffocarlo nelle maglie di una sintassi speculativa. Coordinare, iperarticolare non è altro, si potrebbe pensare, che una colpevole sopravvivenza della magia; e la conseguenza nel discorso non potrà essere altro che un genere, il saggio, proprio per questo totalmente sospetto e pochissimo praticato in lingua inglese (se non in modo più Indico, più consapevole del suo carattere di gioco). Se le cose stanno così, se ne intende la ragione? La tradizione della frase complessa, in cui un eccesso di sintassi permette di differire il chiarimento delle nozioni, abitudine che d’altronde non riguarda la totalità del discorso in lingua francese perché l’università, per esempio, vi si è a lungo opposta, non sarebbe allora altro che una pratica senza verità né sostanza propria, che sarebbe opportuno riformare? Di fatto, e nell’istante medesimo in cui qualcosa della cultura francese ci appare in uno sguardo straniero, credo si possa altrettanto bene considerare un giudizio del genere, ossia il ritenere semplice illusione la frase lunga, nient’ altro che un’illusione a sua volta, infatti la lingua che ha giudicato non si è accorta di assolutizzare un punto di vista limitato, e di cadere dunque in una trappola. Non si tratta, tuttavia, di dubitare del fatto che la frase lunga accresca la precarietà epistemologica del pensiero, assicurando alle nozioni che mette in gioco una tregua, una tregua veramente lunga prima che esse siano costrette a incontrare le cose. Ma sulla via di questo incontro, non bisogna forse chiedersi ugualmente cosa sia vero, o reale, e se c’è una sola maniera di pervenirvi? Per quanto mi riguarda ritengo che se anche una concettualizzazione fallisce nel penetrare l’essere del mondo, può esser riuscita ad approntare una pratica dell’esistenza, una modalità di rapporto della persona con il mondo. Penso, in altre parole, che un inquadramento apparentemente azzardato nei dati empirici possa aiutare la fioritura di categorie di pensiero (teniamo ferma quest’ultima parola) veramente necessarie da questo nuovo punto di vista. Credo inoltre che lo spazio inerente alla frase lunga, la sua capacità di tenere a distanza dalle fantasticherie del desiderio il momento e il luogo in cui esse dovranno rinnegare se stesse, sia la calda atmosfera di serra che permette di opporre all’universo neutro dei fatti — un universo nel suo intimo asociale — un mondo che non si dovrebbe tanto definire soggettivo e senza verità, ma consapevole dei bisogni della vita e adeguato ai rapporti tra le persone: quello che, con Mallarmé, si può chiamare un soggiorno. Il progetto del saggio è meno l’adæquatio rei et intellectu che quella del luogo terrestre e del parlante che deve viverci. Le parole, in esso, non sono astratte — nel senso di chi le accusa di gratuità — se non nella misura in cui questo permette loro di essere concrete in modo diverso, inanalizzabile forse, ma senza dubbio abitabile: sono, se così posso dire, parole umane, nel cui orizzonte riappaiono quei grandi fatti della vita tanto utili da meditare quanto inafferrabili per il pensiero scientifico: la finitezza, la circostanza tragica, la gioia, la speranza o la disperazione, tutto quello che si può chiamare non più il significato del fenomeno, ma il senso dello sguardo rivolto al proprio destino. Quanto all’errore, anzi alla compiacenza o all’impostura, va da sé che esistono veramente nella frase lunga, ma in un modo diverso che in quella breve, la quale dovrà dunque, prima di metterla sotto accusa, cosa che è un suo diritto, se non suo dovere, non immaginare di essere sola al mondo. Insomma, il 78
discorso incriminato può non aver voluto far altro, nello specifico, che abbozzare ciò che il lettore dovrà portare a compimento, non la formulazione dì una legge, ma la sintesi di un essere-al-mondo. Quello che non si dovrà mai più scordare è, però, che vi sono due funzioni nel discorso, ugualmente necessarie, semplicemente a volte eccessivamente intolleranti e inconsapevoli l’una dell’esistenza dell’altra. Così, ai confini di due tradizioni culturali, dove accade che questi rapporti si dispongano conviene non irritarsi. Conviene piuttosto porre nuove domande. Si può dire, per esempio, che se l’enunciazione inglese, oggi ama molto la frase breve è perché dispone di mezzi diversi da quella lunga per portare a compimento la sintesi che è l’obiettivo di entrambe, senza che tuttavia tale sintesi sia appannaggio di alcuna lingua sulla terra. Si pone allora una questione: la frase breve non è forse compensata, in inglese, dalla vasta e tanto ricca tradizione del romanzo, uno degli apporti del quale è precisamente suggerire un luogo di vita, un soggiorno, nell’orizzonte della finzione che dispiega? Osiamo avanzare questa ipotesi: la frase del saggio francese. autorizzata a far uso di tutti i mezzi della sintassi e dei tropi, rende inutile il romanzo: Montaigne e Diderot, o Mallarmé nelle Divagations, tolgono all’immaginazione romanzesca la responsabilità che potrebbe spingerla a un’invenzione forte e potente. Proust non sarebbe quell’ immenso sguardo sulle situazioni e sugli esseri, se una riflessività — da saggista — non continuasse a dirigerne la parola. E bisognerebbe anche porsi la questione della poesia, che ha ovunque lo stesso scopo: lacerare la rete della rappresentazione per giungere a una maggiore unità, a una maggiore presenza al mondo nelle cose che viviamo; ma dovrà allora far convergere il proprio sforzo di contestazione affascinata in inglese sul romanzo, ossia sulla finzione, sempre troppo chiusa su se stessa, e in francese sulla parola del saggista, che infittisce la trama della coscienza delle cose e la coordina con troppa forza. Yves Bonnefoy a cura di Donata Feroldi [da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004; per gentile concessione dell’autore.] 79
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