ULISSE 7-8 - LietoColle
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questa «aura internazionale e multiculturale» – di questa «dimestichezza con luoghi lontani dalla terra<br />
natia, [di] questa appartenenza ormai al “villaggio globale”» – vena di una prospettiva poetica nuova e di<br />
linguaggio.<br />
«Due fatti, tra tanti, s’inscrivono nell’idea di passaggio, di transito: il fatto che qualcosa è lasciato – per<br />
sempre oppure nella speranza di un prossimo ritorno là, dove si è partiti; il fatto che una novità è attesa,<br />
cercata, tentata». Carla Canullo in “L’incomprensibile e la traduzione” indica come «tradurre [sia] far<br />
accadere un trasferimento di senso; [ed] anche attingere alla potenza della metafora, della metonimia».<br />
Non soltanto il «passare – tramite vocaboli o lessici sempre più specifici ed aggiornati – ad una lingua che è<br />
altra, o un rendere disponibile a tutti, ma […] un mettere sul tavolo la posta in gioco del testo da tradurre,<br />
la sua complessità, il suo senso e la sua storia. È desiderare che nella banalità espropriante si acceda al<br />
proprium del testo e del suo linguaggio». Infatti «l’esperienza e la traduzione come esperienza sono un<br />
banalizzarsi per tornare a sé, per tornare al proprium del testo e, tramite ciò, a quel proprio proprium che<br />
non è mai il risultato di una appropriazione definitiva ma che è il segno dell’incessante divenire, noi stessi,<br />
ciò che si è; incessante divenire che accade grazie ai transiti e passaggi quotidiani che compiamo, vivendo.<br />
In fondo, la posta in gioco è il mistero che il linguaggio del testo custodisce. È il mistero del sé, di chi scrive e<br />
traduce». Mentre Giampaolo Vincenzi, con “Appunti sull’ermeneutica e sull’etica della traduzione da<br />
Schleiermacher a Berman”, mostra come l’analisi si possa giovare guardando alla «reciproca influenza tra il<br />
lavoro che il traduttore svolge nel traslare un’opera d’arte poetica, e quella rete di leggi inconsce e culturali<br />
alle quali il traduttore stesso è vincolato nell’operazione di lettura e di riscrittura». La traduzione, infatti,<br />
«non è solo un risultato testuale di un lavoro, ma è il processo stesso di trasformazione di un testo in un<br />
altro praticato da un individuo che possiede una sua cultura particolare, e nel contempo è posseduto da –<br />
fa parte di – una cultura. Il testo tradotto, oltre ad essere il risultato del processo, è anche il banco di prova<br />
sul quale il traduttore si misura e sul quale lo studioso tenta di ricercare le tappe tramite le quali il percorso<br />
traduttivo si è dipanato».<br />
Seguono, poi, esperienze di poeti traduttori. Luigi Ballerini porta in causa un testo che, da breve<br />
testimonianza iniziatica, rapidamente scorre, per exempla, lungo le quattro direzioni in cui l’autore ha<br />
svolto l’attività di traduttore: testi altrui portati dall’inglese in italiano, testi dello stesso autore volti<br />
dall’inglese in italiano, testi dell’autore tradotti dal milanese in italiano e, infine, testi altrui (di Cavalcanti)<br />
resi dall’italiano in milanese. In coda, con una sorta di affettuoso venenum, la divertita/divertente e<br />
rovinosa ingerenza di un hapax legomenon.<br />
Da parte sua, Yves Bonnefoy illustra in “La frase breve e la frase lunga” – testo a cura di Donata Feroldi, già<br />
apparso in La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004 – come venga<br />
accolta con «impazienza», da altra tradizione linguistica, l’«abitudine» della/alla “frase lunga” francese. Ad<br />
essere “sospetto”: «lo spirito che […] accompagna le parole», ed «il fatto che colui che [scrive la frase<br />
lunga] sembra vederla accadere in un luogo mentale in cui, dispiegandosi in una forma intelligibile, essa<br />
può pretendere di costituire la verità dall’interno[,] trionfando così sull’oscurità dei fatti che ha il compito di<br />
analizzare ma anche, ancora di più, sull’idea stessa di oscurità, vincendo il timore che ciò che è sia<br />
impenetrabile a colui che pensa». L’analisi attraverso cui ci conduce muove a chiarire come «l’autore di<br />
questa frase tridimensionale non dubiti affatto del suo svilupparsi nello spazio stesso dello spirito,<br />
accedendo a una tale purezza attraverso l’esercizio congiunto della logica e di una sintassi che aiuta a<br />
dissipare, di fronte alle parole e in esse, quanto intralcia l’adæquatio rei et intellectu», e come «il discorso<br />
incriminato può non aver voluto far altro, nello specifico, che abbozzare ciò che il lettore dovrà portare a<br />
compimento, non la formulazione di una legge, ma la sintesi di un essere-al-mondo».<br />
Guarda ad una specie di “inventario” della sua «officina di traduzioni» Giovanni Giudici – ed è ancora un<br />
testo da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004. Vitali per lui,<br />
nella “necessità” del tradurre sono la spinta a «penetrare [n]ella poesia», ed un “mistero”. Giudici vede<br />
come «tra le condizioni favorevoli alla traduzione di poesia si debba comprendere anche quella di una forte<br />
“escursione” (o differenza) tra la lingua da cui si traduce e quella in cui si traduce; divario o “salto” o gap<br />
che sia sufficientemente apprezzabile da invogliare allo sforzo di colmarlo e nel quale si colloca appunto lo<br />
spazio ideologico-motivazionale-operativo della traduzione». E «tradurre una poesia in queste condizioni è<br />
una sorta di avventura, un inoltrarsi in un paese sconosciuto, mossi da un amor de lonh, affascinati come<br />
Jaufré Rudel da una bellezza non veduta, da un “sentito dire”; è un conquistare a noi stessi quella poesia e<br />
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