per metà umano in Lingua Franca lei parla di anni passati 33 anni di tempi velocemente andati. Lei sembra essere la voce della chiesa questo posto la sua casa queste mura i suoi guardiani Se mai lei se ne andasse il cancello aperto lei distruggerà diventando la polvere la sua vita perduta Ho visto questa visione ad ogni costo serenità testimoniata ho sentito umanità come Ebrei e Musulmani e Cristiani e Ortodossi sono diventati mistici vicino alle montagne in un cortile chiamato Curtea de Arges impresso stampato sigillato chiuso abbracciato il mio cuore sta con lei nella sua chiesa quando i cancelli si chiudono uudono uuuuuuuuuuu-ddonoooooooooooooooooooooooooooooooooooo NOTE. (1) Carl Gustav Jung, Psicologia e poesia, Torino, Biblioteca Boringhieri, 1988, p. 70 e ss. (2) La parola, inesistente in inglese, almeno finora, si può tradurre in italiano con un altro sostantivo calcato sul femminile e inesistente al maschile (finora), quale massaio, o casalingo. L'affermazione di Yasuhiro Yotsumoto si trova negli atti del Festival Internazionale di Poesia di Bucarest, a cura di Dumitru M. Ion e Carolina Ilica, Edizioni dell'Accademia Internazionale Orient-Occident, 2006. (3) Jaím: nome maschile in lingua ebraica che significa "vita" (N. dell'A.). (4) Città nel Nordest dell'Ungheria (N. del T.). (5) Attila József (1905-1937) è il massimo esponente di una tendenza poetica associata agli ideali della rivoluzione socialista, che racconta la realtà quotidiana dei contadini e degli operai, della gente che patisce, con lucida e disperata chiaroveggenza. (N. del T.) (6) Talpiot è un quartiere di Jerusalem (N. dell'A.). (7) Stile di musica cortigiana propria del Giappone nel periodo Heian (794-1185). Sia gli strumenti impiegati dall'orchestra che la base armonica e le scale mettono in evidenza una sensibilità molto lontana, se non completamente diversa dalla tradizione musicale occidentale, e molto legata ai suoni e alla contemplazione della natura (N. dell'A.). 56
L'INCOMPRENSIBILE E LA TRADUZIONE Due fatti, tra tanti, s’inscrivono nell’idea di passaggio, di transito: il fatto che qualcosa è lasciato – per sempre oppure nella speranza di un prossimo ritorno là, dove si è partiti; il fatto che una novità è attesa, cercata, tentata. Il passaggio, il transito si danno in ogni partire. E partire e ri-partire è il gesto che scandisce giornate e quotidianità fatte di incontri ed inizi destinati a far riaccadere un usuale che in esse si destina a tornare nuovo. Persino nello scorrimento banale delle solite cose c’è un ripartire, e c’è il mordente desiderio d’indefinita attesa che la banalità torni ad essere ciò che deve essere. Banale, da cui banalità, è un francesismo coniato a partire da ban, a sua volta eredità del latino bannum. Banale nasce dal bando che promulga e rende pubblico ed accessibile a tutti ciò che, fino ad un certo momento, è stato appannaggio di pochi. Nasce in contesto medievale, ad indicare la possibilità elargita a tutti di usufruire di forni, fonti e quant’altro fosse esclusivo privilegio e possesso del feudatario. Il bando elargisce e, con esso, la banalità diventa capace di elargire, dare e concedere a tutti. Anche la traduzione è banale. Rende accessibile a tutti ciò che sembrerebbe essere destinato soltanto ai “pochi” che comprendono la lingua in cui una frase è pronunciata o, un testo, scritto. Traduciamo una richiesta perché questa diventi comprensibile e trovi risposta; traduciamo un testo affinché sia fruibile ed accessibile, finalmente a disposizione di tutti. La traduzione è, oggi come un tempo, quel bannum che rende banale e disponibile a tutti ciò che, invece, rischierebbe di essere disponibile a pochi (e per pochi). Bref, la traduzione rende la banalità ciò che deve essere. Non “il solito scorrere” ma “un mettere a disposizione” ciò che è “per tutti”. Che cosa, tuttavia, in questo caso, è banale e “per tutti”? Un testo, una lingua, un linguaggio? Certo, di diritto dovrebbero essere “per tutti” ma, di fatto, le cose non stanno sempre e “per tutti” così. Di più, non tutto si può tradurre e, per quanto laconica e superficiale, questa constatazione s’impone. O, forse, ad essere “per tutti” è altro; non l’immediata ed impossibile disponibilità di tutto a tutti ma, paradossalmente, proprio quel fondo di incomprensibile che nutre le differenze tra le lingue e i linguaggi, che rende impervia ogni traduzione, interrogando innanzitutto il traduttore, mettendolo in discussione; che, in fondo, spinge alla ricerca di “altro”, e dunque al passaggio, al transito. Incomprensibile che tocca la traduzione perché, in prima istanza, ne tocca o, con un eloquente latinismo, ne affecta (da affectus, che toccando modifica, cambia, incrementa o decrementa) l’esperienza. Nella parola esperienza è contenuto il transito, il passaggio verso altro. Esperienza contiene in sé la radice indo-europea per-, radice che essa condivide con il termine pericolo e che indica anche l’attraversamento, l’andare per viam, il passare. Così, i termini empereia in greco, experiri in latino, esperienza in italiano, experiencia in spagnolo… mostrano tutti che ogni volta abbiamo a che fare con la plurivocità di tale radice, la quale connota, appunto, sia il nemico e il pericolo (periculum) che la traversata e il passaggio. Ogni esperienza nutre in sé la duplice idea di una traversata pericolosa e rischiosa, un’apertura verso “altro” ignoto. L’esperienza perciò è un attraversamento che espone alla novità ma anche al rischio, al pericolo. Fare esperienza è mettersi in cammino correndo il rischio del fallimento o esponendosi allo scacco; cosa che è vera anche per l’esperienza della traduzione. Di fatto, la soddisfazione e il piacere che proviamo nel vedere tradotto un testo, nostro o della nostra tradizione, è alla fine ben poca cosa rispetto allo scacco che vi cogliamo: nel migliore dei casi talune sfumature linguistiche non sono colte, nel peggiore dei casi il fraintendimento è sempre in agguato. Inoltre il traduttore si trova a fare non poche scelte e ad affrontare altrettante difficoltà: impietosamente, infatti, deve scegliere non soltanto tra il senso e la lettera (eterna croce – senza delizia! – dei traduttori) ma i tra suoni, i ritmi e le parole con le quali deve dire ciò che non è quasi mai dicibile, in ogni lingua, allo stesso modo (1). E tuttavia, malgrado ciò si traduce, e non soltanto traduttori ma mercanti, ambasciatori, viaggiatori, viandanti, spie sono sempre esistiti e sono sempre stati “necessari” all’economia delle vicende storiche; “personaggi” che hanno, nei secoli, reso “banali” le loro merci e, soprattutto, la loro esperienza. Di nuovo, allora, la traduzione sembrerebbe essere sempre stata una forma di banalizzazione, quel bannum che rende qualcosa, in questo caso l’esperienza (anche quella poetica), disponibile a tutti. Sembrerebbe, tuttavia. Perché in realtà qualcosa cambia, se leggiamo la traduzione come esperienza. Entrambe, è vero, dicono e fanno accadere un transito, un passaggio. O meglio, l’una lo fa accadere perché l’altra, di fatto, lo è. In entrambe però accade più di un semplice andare verso e attraverso, come proprio l’origine del termine traduzione mostra e rivela. Il verbo tradurre e il sostantivo traduzione sono stati impiegati per la prima volta, nell’accezione che oggi possiedono, nel XV secolo da Leonardo Bruni. Il quale, nel De interpretatione recta, giustificando alcune scelte operate nella traduzione di un passo delle Noctes Atticae di Aulo Gellio, utilizza il termine tra(ns)ducere «nel senso che oggi possiede» (2) contro la tradizione classica secondo la quale «tra(ns)duco non ha mai avuto il significato di tradurre» (3) e per la quale «il solo rapporto della traductio con la letteratura […] passava per il tramite della metonimia» (4). Il vocabolario latino (5), sotto il termine traductio, dà infatti i significati di far passare, e dunque di trasferimento, tropo, metonimia, ripetizione..., significati che il sostantivo deriva dal verbo tra(ns)duco/tra(ns)ducere e che dovevano essere certamente familiari e noti ad un umanista del ‘400. Soltanto l’altro ceppo verbale che, 57
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