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Com’è noto, la dottrina, già sotto la vigenza del codice Rocco, ha classificato i<br />

vizi patologici afferenti le prove in due categorie. Si parla di “prove illecite” quando sia<br />

stata violata una norma penale sostanziale, o meglio quando la commissione di un reato<br />

si inserisca nell’iter che permette l’ammissione di una prova nel processo; sono, invece,<br />

definite “prove illegittime” quelle che presentano un vizio tale per cui nel procedimento<br />

di ammissione della prova sia ravvisabile una violazione di una norma processuale 267 .<br />

In assenza di espressa indicazione normativa, nel codice abrogato, vi fu un<br />

acceso dibattito che ha visto contrapposti i sostenitori delle due teorie. Da un lato,<br />

secondo l’impostazione dominante, l’ammissibilità delle prove doveva essere giudicata<br />

in base alla legge processuale 268 , poiché solo una falsa prospettiva avrebbe suggerito<br />

l’opinione secondo la quale sarebbero inammissibili le prove ottenute o formate con<br />

un’azione illecita 269 . Si sosteneva, infatti, che “per quanto la si cerchi riuscirà<br />

impossibile rintracciare nel nostro codice una norma che imponga d’escludere, e in ogni<br />

caso d’ignorare, le prove ottenute con un’azione illecita: le qualifiche d’ammissibilità e<br />

rilevanza appaiono formulate in base a criteri autonomi, endoprocessuali, fuori d’ogni<br />

riferimento ai paradigmi del diritto sostanziale” 270 . Ancora, secondo questa tesi, tali<br />

qualifiche non potevano essere dedotte dai princìpi costituzionali poiché le norme della<br />

Costituzione rappresentano il metro per valutare la validità delle leggi comuni, ma<br />

spetta alle leggi comuni del processo stabilire l’ammissibilità o meno delle prove 271 . In<br />

conclusione, si sosteneva che per decidere sulla validità dell’acquisizione probatoria<br />

bisognasse riferirsi al “potere di apprensione coattiva dell’organo giudiziario”, come<br />

dire che, in una ipotesi di sequestro probatorio eseguito all’esito di una perquisizione<br />

illegittima, “la chiave sta nel vedere se il giudice avrebbe potuto ordinare il sequestro;<br />

nell’ipotesi affermativa la prova è ammissibile, perché, di fatto, l’esito non eccede la<br />

misura del legittimamente conseguibile; e se invece il potere del sequestro non compete<br />

neppure al giudice, vale la conclusione opposta [...]. Ammesso che l’ausiliare si sia<br />

impossessato illegittimamente della prova, l’acquisizione da parte del giudice (che<br />

avrebbe potuto disporre il sequestro) interrompe la sequela: l’atto del funzionario era e<br />

resta illecito, ma il giudice può disporre validamente della prova perché, nell’acquisirla,<br />

267 Sulla distizione cfr. F. CORDERO, Prove illecite, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 147.<br />

268 F. CORDERO, Dialogo sulle prove, in Jus, 1964, 35.<br />

269 F. CORDERO, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 63.<br />

270 F. CORDERO, Prove illecite, cit., 149.<br />

271 F. CORDERO, Prove illecite, cit., 153.<br />

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