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operazioni di questo genere un abuso di potere, o peggio una teoria del complotto, è<br />

palese che il giudice chiamato a decidere, ma anche “il popolo nel cui interesse la<br />

giustizia è amministrata”, debbano pretendere che l’agente inseritosi – seppur a fini di<br />

giustizia – in un organizzazione criminale, fornisca prove dotate di un maggior grado di<br />

oggettività e terzietà rispetto ad una sua testimonianza sui fatti.<br />

Le sue dichiarazioni dovranno quindi aggiungersi ad altri elementi di prova quali<br />

il corpo del reato sequestrato ovvero eventuali registrazioni di intercettazioni ambientali<br />

predisposte ad hoc, e potranno avere un utilità (non tanto come fondamento di una<br />

sentenza di condanna, ma) anche per valutare l’intensità del proposito criminoso da<br />

parte del soggetto coinvolto ai fini della determinazione della pena di cui all’art. 133<br />

c.p. 198 .<br />

Così ridimensionato il problema della testimonianza dell’agente undercover, va<br />

ancora evidenziato come la teoria su esposta, nel sostenere la non necessità di un<br />

indagine formale nei confronti dell’agente de quo il cui comportamento, pur non avendo<br />

rispettato le disposizioni disciplinanti la scriminante speciale, possa trovare<br />

giustificazione nel generico disposto di cui all’art. 51 c.p., presenta un’ipotesi<br />

(scolastica) ben lontana dalla realtà. Duplice è la motivazione che porta ad una presa di<br />

posizione così netta. In primo luogo, per potersi giustificare l’operato dell’agente sotto<br />

copertura a norma del combinato disposto degli artt. 51 c.p. e 55 c.p.p., l’intervento<br />

dello stesso deve essere indiretto e marginale nell’ideazione e nell’esecuzione del fatto,<br />

nel senso che l’attività non può inserirsi con rilevanza causale nella realizzazione<br />

dell’illecito, ma deve essere limitata a una “mera osservazione e controllo” dell’altrui<br />

condotta illecita 199 . Tale norma ha perciò una portata notevolmente inferiore rispetto alle<br />

altre scriminanti speciali disciplinate dal legislatore nella normativa ad hoc, sicché pare<br />

altamente improbabile che l’attività dell’agente undercover spintosi oltre i limiti segnati<br />

dalla speciale causa di giustificazione, possa essere scriminato alla luce della norma<br />

generale.<br />

198 Il tutto va naturalmente valutato alla luce del principio del libero convincimento del giudice: si ritiene,<br />

tuttavia, che il disposto degli art 192 co. 3 e 4 c.p.p., nell’imporre allo stesso giudice un obbligatorio<br />

criterio di valutazione, si attaglia perfettamente alle ipotesi de quibus. Difatti, tralasciando per un<br />

momento l’ipotesi che l’agente di polizia giudiziaria incaricato dell’operazione venga sentito come<br />

testimone “comune”, assistito o come coimputato è evidente che il suo coinvolgimento diretto nella<br />

formazione della fattispecie criminosa imponga al giudice la ricerca di elementi di prova ulteriori al fine<br />

di pronunciarsi positivamente in ordine alla colpevolezza del “provocato”: questa interpretazione è stata<br />

fatta propria dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, che pur non considerando inutilizzabili le<br />

dichiarazioni rese dall’agente undercover ha sottolineato come queste debbano essere accompagnate da<br />

ulteriori elementi che ne confermino l’attendibilità; vedi in proposito in questo Capitolo, par. 4.<br />

199 Vedi sul punto cap. II par. 1.1.<br />

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