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originario del decreto legge che prevedeva l’obbligo dell’ufficiale di polizia incaricato,<br />

di dare comunicazioni al pubblico ministero limitatamente “alla fase genetica” 127<br />

dell’operazione ed alla conclusione della stessa.<br />

Nonostante le modifiche apportate al testo definitivo della legge 438/2001 – il<br />

cui testo è stato poi trasfuso nell’art. 9 l. 146/06 –, in dottrina, si è tratta la conclusione<br />

per cui l’azione simulata dovrebbe intendersi come una “facoltà” che i vertici delle<br />

polizie possono adottare secondo la propria analisi della singola situazione processuale,<br />

considerate le già avviate indagini che verranno poi concluse autonomamente<br />

dall’autorità giudiziaria ex artt. 347 e 348 c.p.p. 128 . Così, la delicatezza della materia e la<br />

responsabilità che il potere esecutivo intende assumersi premerebbero affinché la scelta<br />

non venga demandata ad un singolo, ma discenda dalle mansioni direttive delle più alte<br />

cariche: un compito che tuttavia non dovrebbe essere di pertinenza dell’autorità<br />

giudiziaria.<br />

Il meccanismo attuativo di ogni operazione undercover si muoverebbe perciò,<br />

sempre all’interno dei poteri discrezionali della polizia giudiziaria, attraverso una chiara<br />

e netta bipartizione: da una parte vi sono gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati ad<br />

assumere le vesti di agente provocatore 129 , attraverso un ordine legittimo individuato<br />

con certezza da una legge scritta, dall’altra operano i vertici delle forze dell’ordine che,<br />

impartiti ritualmente gli incarichi, non soffrirebbero di alcun tipo di censura di<br />

legittimità. La ragione di una tale “anomalia investigativa” dovrebbe essere rinvenuta<br />

proprio nella natura dell’attività di codesti vertici, muovendosi gli stessi in una zona<br />

127 Le parole sono di G. MELILLO, Le recenti modifiche, cit., 906.<br />

128 R. MINNA – A. SUTERA SARDO, op. cit., 46; DE MAGLIE, op. cit., 182.<br />

129 L’inquadramento dei rapporti intercorrenti fra autorità giudiziaria e agente sotto copertura comporta<br />

degli importanti riflessi anche sotto un profilo sostanziale legato alla responsabilità penale dello stesso,<br />

qualora questi ometta di comunicare immediatamente al p.m. l’avvenuto svolgimento della sua attività.<br />

Due sono i filoni sui quali si è principalmente attestata la dottrina. Il primo ritiene che l’attività<br />

dell’infiltrato debba svolgersi, sin dall’inizio, sotto il completo ed assoluto controllo della magistratura,<br />

con la conseguenza che la mancata comunicazione del compimento dell’operazione all’autorità<br />

giudiziaria verrebbe a togliere ogni legittimazione all’attività espletata , con la concreta possibilità inoltre,<br />

nel caso in cui la procedura non venisse rispettata, di integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 328<br />

c.p. (C. DE MAGLIE, op. cit. 280; G. AMBROSINI, La riforma della legge sugli stupefacenti, Torino, 1991,<br />

106). Il secondo afferma che il comportamento posto in essere dall’ufficiale di polizia giudiziaria rimanga<br />

comunque non punibile anche se di esso non sia stata data notizia all’autorità giudiziaria (G. DEL CORSO,<br />

Commento all’art. 12-quater del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, 157) dando luogo nel<br />

peggiore dei casi ad una responsabilità di tipo disciplinare e mai a conseguenze penali (Cass., 30 agosto<br />

1993, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, 1592, in senso conforme A. SUTERA SARDO, Una nuova ipotesi di<br />

“acquisto simulato”, in Dir. pen. proc.. n. 11/2000, 1522).<br />

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