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Greggi d'ira - Sardegna Cultura

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Così, l’odissea di Pietro Chessa (pastore senza pecore, protagonista<br />

del libro) lancia ancora freddi bagliori dell’irredenta<br />

inferniade di quel dissepolto paese senza nome perché<br />

meglio risplenda come esemplare simbolo di tutte le dolenti<br />

Barbagie.<br />

La ricerca di Zizi, in quanto sofferto lavoro di scrittore, è<br />

stata una travagliata discesa nelle viscere della realtà viva,<br />

nel ribollire di quel magma che è il rosso bulicame del<br />

sangue sparso tra la fanghiglia esistenziale: ardito sondaggio<br />

nel profondo, nel segreto della carnalità scritturale,<br />

la quale vive di una lingua italiana “petrosa” sgorgata<br />

dai granitici personaggi che hanno gole riarse dall’antica<br />

sete di silenzio solitudine malagiustizia: e quanto dolore,<br />

allora, nel cuore dello scrittore nel sapere che contro quel<br />

Cerbero della Storia, che “con tre gole caninamente latra”,<br />

nessuno osa prendere il suo pugno di terra da gettare “dentro<br />

alle bramose canne”. Nasce così un canto tanatologico,<br />

quasi di riscoperto pathos di tragedia greca.<br />

Così, inevitabilmente, si ostina a esistere il paese di pastori<br />

di Zizi: paese fantasma di quasi visionaria tristezza propria<br />

delle cose tragicamente reali dove, però, vive il dono di<br />

una scrittura vigile che sa variare l’epica della miseria e<br />

dello sradicamento sociale e umano affinando la perizia del<br />

dettaglio lirico, così come appare nelle descrizioni (bellissime!)<br />

della piazza del Municipio, dove “i robusti olmi, tut-<br />

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ti in fila, sembrano fantasmi su cavalli di tenebra”; e, ancora,<br />

in quell’evocare il cielo “pulito con tante stelle grandi<br />

come lune di maggio”. E non è una trovata di letteraria fantasia,<br />

questo prodigare di gesti poetici da parte dell’autore,<br />

visto che l’ulisside Pietro del travagliato racconto è un abile<br />

compositore d’ottave orali, un dolcemente rusticano aedo<br />

che “canta i bambini”.<br />

Non può certo stupire se in <strong>Greggi</strong> d’ira lo sguardo dell’autore<br />

sardo non è puntato soltanto in profondità, dentro<br />

la petrosa carnalità degli umili pastori; ma è anche rivolto<br />

in alto; e, direi: tanto più in alto, quanto più egli è attento<br />

al calpestato fango della sua terra, dove si affatica<br />

quel disperso formicolare di uomini sorvegliati da un Dio<br />

sempre in agguato, pronto a ghermirli; e sorvegliati, essi sono,<br />

anche da una giustizia statuale quasi sempre ingiusta,<br />

dentro una terra espugnata dai “continentali”, e recinta, a<br />

valle verso il mare, con filo spinato. E loro, impietriti negli<br />

ovili, “curvi, muti, soli: tronchi d’olivastro abbattuti<br />

dal fulmine”. Ahi, statue di speranze incarbonite!<br />

Questo filo spinato separa due mondi (e, anche, due civiltà):<br />

i padroni, non solo stranieri, che promettono benessere<br />

in forma di miracolo orlato di miraggio; e i pastori che,<br />

diffidando dell’interessata prodigalità padronale, non affrontano<br />

il rischio della nuova avventura della cooperativa;<br />

e, allo stesso tempo, temono l’evento che scandisca l’im-<br />

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