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Greggi d'ira - Sardegna Cultura

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minente diaspora. Temono l’ignoto. In questo oscillare di<br />

dubbi e speranze, il pendolo dell’angoscia minaccia di scandire<br />

l’ora delle decisioni e così, l’incubo di lasciare l’ignoto<br />

l’amato l’antico rievoca la celebre metafora verghiana dell’ostrica<br />

strappata al suo habitat: e questo dolore di possibile<br />

abbandono punge come replicata condanna. E allora,<br />

anche l’antica e nobile usanza di chi “para perché è stato<br />

colpito dalla malasorte”, impone al travagliato Pietro l’obbligo<br />

del rifiuto, civile forma di nuova balentia, questa.<br />

Questo libro entra nella letteratura di <strong>Sardegna</strong> come opera<br />

atipica, visto che ha avuto la capacità artistica, unita<br />

al coraggio, di far vivere la storia di un popolo, impastoiato<br />

da barbariche funi di mancata civiltà giuridica sociale<br />

politica religiosa e prossimo alla dispersione, cui soltanto<br />

“la catena delle pecore legava il corpo e l’anima”.<br />

Uomini respinti, a torto, da altri “presunti” uomini; e, per<br />

giunta, consapevoli di essere “senza arte né parte, chi è nato<br />

pastore, pastore deve morire”, dice Pietro, interpretando<br />

un pensiero corale. Uomini ritenuti civili che ripudiano fieri<br />

homines; e questi a ripetersi la triste litania: “Siamo come<br />

le bestie, noi, regoliamo il tempo col corso del sole e della<br />

luna o col mutare delle stagioni. Nelle fabbriche e nei<br />

cantieri, invece, si corre sui secondi. Mai al passo coi veri<br />

cristiani siamo noi, perciò non ci vogliono”.<br />

In questo pensoso libro non poteva (perché mai?) mancare<br />

una fugace sosta di “plazer”: c’è una pagina linda che ha<br />

10<br />

il sanguigno nitore dell’improvviso e impulsivo capriccio<br />

d’amore che sa dire tutto in quella danza della giovane Lidia<br />

quando, sopra il molle fieno odoroso, danza “col viso in<br />

fiamme”; e questo fuoco, preludio ad altra fiamma, farà<br />

esplodere, nelle vene di Pietro, lo stesso “impeto di quando<br />

domava le puledre”. Davvero ci voleva il decoro di civiltà<br />

poetica di Zizi per farmi godere questa danza eterna di un<br />

Eros rusticano.<br />

Ormai Zizi ha coscienza che il “cerchio del gregge” sta per<br />

infrangersi. L’amato Eden ha chiuso il suo dorato portale<br />

ad ogni accorato richiamo: fuori, con sembianze di orfico miraggio,<br />

o stazionano ricordi, o premono nostalgie, o folleggiano<br />

illusioni. Strappata la maschera alle chimere, ecco il<br />

tagliente volto del reale. Dice l’autore, quasi ammonendo:<br />

“Bisogna viverci in <strong>Sardegna</strong>, conoscere le cose, la gente, gli<br />

usi. La nostra lingua non si può imparare così, senza vedere,<br />

senza sentire, senza godere, senza soffrire”. La nostra<br />

lingua... In un suo fresco e agile scritto (“I travagli di uno<br />

scrittore anomalo”, del 1997), Zizi ci ricorda che Matte<br />

Blanco “Parla di bilogica, o logica delle grandi emozioni in<br />

cui la parte si confonde col tutto. I pastori della mia terra<br />

vivevano in uno stato di perenne tensione che li portava a<br />

quell’incontenibile traboccamento della parola. Ma la loro<br />

non è stata mai lingua di dialogo: nell’isolamento hanno<br />

potuto coltivare soltanto interminabili soliloqui”.<br />

11

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