SARA MARTINELLICentro Psico Sociale, Iseo, BresciaBuona sera, mi chiamo Sara Martinelli e sono un’educatrice del Centro PsicoSociale di Iseo, Brescia. Vorrei parlavi dell’ esperienza che stiamo facendo attualmentecon un gruppo di familiari.La nostra esperienza con i familiari nasce nel 1992 avendo come obiettivo il“dare informazioni” rispetto alla malattia mentale, ai Servizi, alla terapia farmacologica.È stato un primo tentativo di fornire una risposta alle domande che i genitoriproponevano soprattutto durante gli interventi domiciliari degli operatori. Successivamentel’esperienza si è via via arrestata, da una parte forse per un incapacitàdell’equipe (che allora era giovane, visto che il CPS c’è dal 1980) di portare avantiun discorso continuativo con la famiglia, dall’altra parte c’erano problemi a livelloorganizzativo.Con il passare degli anni le famiglie continuavano ad inviare messaggi di aiuto.Nel 1999 gli operatori e, più precisamente, la psichiatra, l’educatrice, la caposala e un infermiere professionale hanno iniziato a pensare e progettare un corso disostegno alle famiglie. Si voleva provare a fare e a dare qualche cosa di diverso eche potesse durare nel tempo. Inizialmente abbiamo elaborato un questionario diingresso (prendendo come riferimento il metodo della psico-educazione), visto chesia io che la dottoressa avevano partecipato ad un corso di questi tipo. Il questionariolo abbiamo diviso in quattro parti: una parte relativa alla conoscenza della malattiamentale; una relativa alla relazione dei genitori e precisamente alle relazionidi coppia fra marito e moglie, fratello e sorella; un’altra parte relativa alla chiusuradel loro vivere sociale e di conseguenza la chiusura dei contatti con i familiari, deicontatti con la società, con gli amici ed una relativa alla relazione dei genitori eduna relativa alla conoscenza dei Servizi.Un primo approccio è stata la “telefonata filtro”, dove io ho cominciato ad informarei familiari del Corso, puntando soprattutto sul fatto che la famiglia è parteintegrante dell’intervento riabilitativo e soprattutto che il Servizio si rendeva contoche se il figlio poteva contare su qualcuno (gli operatori del Servizio) la famiglianon aveva questa possibilità. Quindi noi dovevamo in un certo senso essere garantidella salute mentale della famiglia. Inizialmente il corso, per motivi di territorialitàe di divisione dei compiti degli operatori, era suddiviso in due momenti, uno serale(mercoledì) ed uno al mattino (sabato).Il nostro obiettivo era quello di formare un gruppo omogeneo e continuativo,ma in realtà si formavano sottogruppi. I due momenti erano suddivisi così: c’era laparte monotematca informativa gestita dalla psichiatra che dava semplici nozionisulla malattia mentale; la volta successiva si portava il dibattito su un piano di confrontosulle perplessità, le paure dei genitori emerse nell’incontro precedente. Avolte si provava a fare “vedere” tramite l’operatore, in questo caso io, il sintomo diuna situazione patologica (ad esempio, un intoppo motorio, un delirio di onnipotenzaecc...). Questo tipo di “espressione” è stata sicuramente una situazione forteper il familiare che, messo davanti ad un comportamento noto o meno, ha dovuto inqualche modo agire sul “sintomo”. Questo tipo di esperienze, in alcuni familiari,117
hanno provocato disturbo, difficoltà, in altri, visto l’elevato impatto emotivo dellacosa, ci sono stati momenti di emozione.Un’ulteriore fase del lavoro è stata quella di proporre il metodo del problemsolving: da una semplice situazione come, ad esempio, lavare i piatti e dormire, ifamiliari si suddividevano in sottogruppi e provavano a dare spiegazione, consiglioe metodo per arrivare alla risoluzione del problema. Interessante, in questa fase,come i genitori che avevano figli sofferenti della stessa patologia suggerisserocomportamenti diversi. Alla fine di questa prima parte del Corso abbiamo elaboratoun ulteriore questionario di chiusura per avere suggerimenti su cosa e come continuare.Per avere comunque una continuità con i famigliari anche durante il periodoestivo, abbiamo mantenuto i rapporti familiari anche con incontri informali, tipouna pizza, oppure con contatti telefonici.Successivamente gli operatori, per motivi vari, sono rimasti in due: io e la psichiatra.A questo punto il problema era come gestire un gruppo di familiari in dueoperatori. Il dubbio non era su come proseguire il Corso, ma su come migliorarel’interazione. Durante il Corso si erano notati alcuni comportamenti, quali il silenziodi alcuni genitori. Altri parlavano solo del problema del figlio. Altri familiarilamentavano di non avere uno spazio di ascolto in cui poter dare sfogo alle loro difficoltà.Parlando con la psichiatra si era deciso che quest’ultima parte l’avrei gestitaio, facilitata dal fatto che, come figura non medica, e in qualche modo non invischiatanella relazione terapeutica con l’utente, potevo essere “libera” da qualsiasipregiudizio nei confronti della famiglia; dall’altra, i familiari si sentivano liberi anchedi lamentarsi del medico se, secondo loro, non dava un giusto ascolto. Comeprimo obiettivo, per facilitare che i genitori potessero sfruttare questo momento, siè programmato uno spazio libero pomeridiano (giovedì) dove il genitore si sentivalibero di dire come era cambiata la propria vita, avendo a casa una persona conproblemi psichici.Oltre a questo, cercavo di far emergere situazioni che, a volte, erano uscite duranteil dibattito precedente quali, ad esempio, sensi di colpa, solitudine, vergogna.Devo dire che questi aspetti sono stati molto utili durante il dibattito anche perchéuscivano vari sentimenti, varie frustrazioni, varie problematiche che a volte era difficileportare nel gruppo.Questo spazio, a mio avviso, è un momento importante per il genitore, unospazio in cui sa che davanti a lui ha una persona che, da un lato, cerca di dare risposteai suoi perché, dall’altro, una persona con cui condividere la sofferenza cercandodi elaborarla nel migliore dei modi.Personalmente ritengo che questo lavoro con i familiari è per me stessa unCorso formativo dove si tocca con mano la sofferenza di persone che si chiedono incontinuazione il “perché” e che colpe hanno, che sbagli hanno fatto. E la difficoltàmaggiore è di non riuscire a dare una risposta convincente e giustificante, ancheperché una risposta giusta non esiste.118
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