prima presentazione pubblica del nostro gruppo. In seguito, collaborando con luiall’Ospedale Psichiatrico, avemmo modo di approfondire la sua conoscenza. Difronte alla sofferenza di una persona non riusciva a starsene con le mani in mano:doveva inventare e mettere in atto qualche strategia di aiuto. Probabilmente questaè stata la molla che gli ha fatto immaginare tutto il lavoro di psichiatria alternativa,chiamata anche “esperienza Basaglia” o “dell’ospedale aperto”, che ha trovato particolarerealizzazione nella nostra città.Come sapete il progetto basagliano prevedeva la chiusura progressivadell’istituzione manicomiale in favore di una presenza capillare sul territorio di alcuniCentri di salute mentale che avrebbero gestito in modo completamente nuovoil disagio psichico. Niente più ricoveri coatti ad esempio, ma terapie farmacologicheappropriate e, per quanto possibile, un ritorno alla normalità di vita e di rapportiper tutti i pazienti. L’impegno per il rinnovamento avveniva su due fronti. C’eraanzitutto l’imprescindibile discorso culturale da proporre all’esterno: preparare lacittà a comprendere le motivazioni del cambiamento di rotta e soprattutto otteneredalla gente l’appoggio necessario per consentire la territorializzazione delle strutturemanicomiali. Era un lavoro immane, ma Basaglia era consapevole che, sel’operazione fosse riuscita a Trieste, la sua risonanza ed il suo peso sarebbero statinazionali: la successiva e conseguente promulgazione della legge 180 gli avrebbedato ragione.L’altro fronte, non meno difficoltoso, era quello interno: i pazienti infatti dovevanoessere liberati, ma dovevano anche essere aiutati a comprenderne i perché.Bisogna pensare che la dimissione dall’Ospedale Psichiatrico era privilegio di pochissimie che quindi per il malato mentale tutte le certezze, le paure, le speranze,le conquiste, tutto, si esauriva all’interno dell’Ospedale. Il paziente sapeva che, sesi fosse mantenuto all’interno di quanto gli veniva imposto, la sua vita, paradossalmente,sarebbe stata meno invivibile: la gabbia ed il letto di contenzione, in molticasi diventavano il punto di riferimento, familiare e rassicurante.Si trattava quindi di educare i pazienti al nuovo corso, ad altre terapie, ad unadiversa considerazione del farmaco, la cui funzione esclusiva era stata, fino ad allora,quella di contenimento.A lavoro avviato, ci si chiese chi mandar fuori, quali pazienti privilegiare inquesti primi tentativi di dimissioni e di reinserimento. La cosa più logica sembravacominciare dai giovani: bisogna infatti considerare che i danni, che un’esperienzadi istituzionalizzazione, per quanto breve, può provocare, sono difficilmente recuperabili.I più giovani dunque furono i primi pazienti ad uscire dal manicomio. Ilfatto di vivere in prima persona l’avventura basagliana e di costituire all’iniziol’unico punto di riferimento esterno - un ponte tra Ospedale Psichiatrico e città -portò il nostro gruppo a considerare la possibilità di un’accoglienza residenzialeproprio di questi giovani.Così è iniziata, più di vent’anni fa, la nostra collaborazione con le strutture disalute mentale nell’accoglienza di persone giovani con problemi psichiatrici.Oggi la Comunità di San Martino al Campo gestisce due case di accoglienza,situate in due diverse zone della città: la struttura di via Rota, sul colle di San Giusto,recentemente risistemata, formata da due appartamenti, situati all’interno di uncondominio, messici a disposizione dal Comune di Trieste, e la casa di via Brande-41
sia, nel rione di San Giovanni, realizzata su tre livelli e circondata da unbell’appezzamento di terreno.L’accoglienza è rivolta a persone con patologie appartenenti all’area delle psicosischizofreniche, prive di un riferimento familiare valido (o perché realmenteassente o perché disturbante e patogeno), con un carico familiare oggettivo o soggettivoelevato, con alle spalle un tempo di malattia non superiore agli otto anni(questo in linea di principio…).L’Azienda Servizi Sanitari assicura, attraverso il Dipartimento di Salute Mentale(con il quale la Comunità è convenzionata), la programmazione delle attivitàda svolgersi, il controllo e la verifica di qualità.Nei progetti, sempre concordati con gli operatori dei Centri di Salute Mentale,c’è una componente di tipo farmacologico, ma soprattutto c’è la vita di comunità.Noi crediamo fermamente che ogni persona, per quanto oppressa dalla sofferenzapsichica, abbia comunque in sé una parte sana. E’ su questa parte che la Comunità,proponendo una dimensione di normalità, pensa di poter far leva. Ci sembra chetutta l’esperienza di questi anni in tal senso possa essere garanzia della bontà delmetodo usato nell’affrontare questo tipo di disagio.Anzitutto le nostre case hanno sempre un numero molto limitato di ospiti - seinella casa di San Giusto, dieci in quella di via Brandesia - perché il progetto deveessere individualizzato e la persona deve poter godere di un’attenzione particolaree allo stesso tempo molto “normale”.Crediamo che meno specializzato è l’intervento della Comunità tanto piùduraturi e profondi possono essere i risultati ottenuti. La nostra proposta terapeuticaconsiste essenzialmente nel condividere la gestione del quotidiano con i nostriospiti, nell’accompagnarli in un lavoro riabilitativo finalizzato principalmenteall’apprendimento di competenze basilari quali la cura di sé e del proprio ambiente,l’indipendenza nella vita quotidiana, la capacità di tessere relazioni significativedal punto di vista familiare e sociale. Vivere assieme e confrontarci nei frequentimomenti di verifica, spesso ci permette di vedere quali sono stati gli snodi problematicidi tipo affettivo riconducibili ad esperienze infantili o adolescenziali chehanno portato alla malattia ed a mettere in atto progetti riparatori.L’ospite non è solo in questo suo cammino di recupero, ma è sempre sostenutodagli operatori (nella casa di San Giusto lavora un’equipe di quattro operatori piùun responsabile, nella casa di via Brandesia un’equipe di sei operatori più un responsabile)e dai volontari della Comunità che sono diventati degli amici. Abbiamomolta cura di questa dimensione. Nessun ospite viene catapultato da un giornoall’altro da noi: coi Servizi siamo sempre particolarmente fermi su questo punto.La persona deve accettare liberamente la Comunità, il suo stile, i primi piccoli ravvicinatiobiettivi. Per questo l’accoglienza residenziale viene sempre preceduta daun periodo - di qualche settimana o anche, a volte, di un paio di mesi - di preaccoglienzadurante il quale magari le si propone una presenza soltanto diurna inComunità. Appena dopo l’accettazione e l’entrata si costruisce il progetto vero eproprio, chiamando la persona stessa ad essere protagonista delle scelte che la riguardano.42
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