Già nel manifesto che illustra il programma delle escursioni del progetto “IChiarori del Bosco” potete leggere questa frase di Geoffry Chancher che ci introducenel tema: “…E gli uomini ricercano pellegrinaggi e i pellegrini terre sconosciute”.Qualcuno ci ha anche chiesto come abbiamo trovato questo titolo così suggestivo:“I Chiarori del Bosco” appunto. In effetti l’esperienza di escursioni nel nostroAppennino era di fatto già attuata da 4 anni, per così dire “senza titolo”, tra ilnostro Servizio di Salute Mentale con il gruppo di Guardie Ecologiche e la collaborazionedel Parco nazionale del Gigante dell’Appennino reggiano. Si è arrivati poiall’esigenza di denominarla per poter chiedere, attraverso una relazionepresentazione,un aiuto finanziario. In quel periodo stavo leggendo un libro di MariaZambrano, una filosofa spagnola tra le più originali della riflessione contemporanea;il libro è “Verso un sapere dell’anima” e lo consiglio a tutti voi, soprattuttoagli studenti.Sul retro di copertina del libro, accanto ad alcuni cenni sulla vita di questa autrice,ci sono gli altri libri pubblicati e tra questi uno dal titolo “I Chiarori del Bosco”.Questo titolo fa riferimento a un concetto del filosofo tedesco Heidegger,concetto racchiuso nel termine Licthung che può essere tradotto in “radura luminosa”,in “apertura del bosco”. Per Heidegger la radura luminosa è quel luogo dovenoi abbandoniamo la nostra coscienza vigile, difensiva, per uno sguardo diverso,aperto, che rinvia ad un tempo interno contemplativo “capace” di “circondare condolcezza le cose” (al di là della tirannia del tempo esterno, quello, per intenderci,delle lancette dell’orologio).Da lì il nome di questo progetto. Il “chiarore del bosco” è dunque una metaforache sta a significare la nostra apertura, la nostra disponibilità ad aprirci all’altro,a “manifestarci a lui”, al di là della difensività della nostra coscienza vigile. È insomma“una vicinanza” che non ha nulla a che fare con la semplice nozione di vicinanza,come quando diciamo “questo oggetto è vicino a quello”.La nostra vicinanza è una “vicinanza affettiva”, esattamente all’opposto dellemoltitudini di vicinanze che ci sono, ad esempio, in certi odierni centri commercialie che sono vicinanze solo geometriche.Questa vicinanza affettiva richiama ciò che Maria Zambrano descrive come“visione attraverso il Cuore” contrapponendola alla “visione intellettuale” descrittadall’autrice come “repertorio di forme” in cui la coscienza è prigioniera.Il Cuore, e questa è la seconda metafora che vi propongo, invece ha una “lucepropria” che consente di aprire un varco laddove sembrava non esserci passaggioalcuno, di scoprire i fori della realtà quando si mostra inaccessibile, di incontrareanche la soluzione di un conflitto interiore quando si è caduti in un labirinto inestricabilea causa dell’aggrovigliarsi delle circostanze.La “luce del Cuore”, a differenza della “luce intellettuale” offre conforto, sospingea quello slancio dell’animo che ha in sé il sigillo della generosità.Nel sentire intellettuale invece sappiamo di non poterci aspettare questi slancivitali, si “sente” certo, ma in questo sentire c’è ermetismo, “si sente per sé”, ed è unsentire che non si apre mai né si irradia.Il Cuore, scrive Maria Zambrano, è il viscere più nobile perché porta con sél’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso “che si apre, si121
offre”. E il suo “offrirsi” non è “finalizzato all’uscire da sé”, bensì a “fare addentrare”in sé ciò che vaga fuori. È insomma una interiorità aperta.Il Cuore dà spazio, accoglie in sé il tempo e unisce il suo “lavoro” a quelloumile e disperso delle altre viscere, lavoro costante di un’opera consuetudinariaeppure formidabile, in una sincronia dettata dal ritmo e dal tempo, e in una unitàche non solo rispetta le differenze, ma di esse ha bisogno.E arriviamo qui, alla terza metafora. Dopo quella dei Chiarori del Bosco” e del“Cuore” e che racchiude e circonda queste due, è la metafora, appunto, del “Viandante”.Chi è il Viandante?Il Viandante è colui che “è sempre aperto” all’esperienza, a ricercareun’apertura possibile, ad esplorare un sentiero dove non sembrava esserci passaggioalcuno. A tornare sui propri passi per uscire da un vicolo cieco e cambiaresguardo, per poter vedere la corrente d’acqua che scorre, magari sotto terra, nascostada arbusti e foglie.Il Viandante è obbligato per sopravvivere ad accogliere la diversità, “a rimanere”in quel luogo di frontiera in cui si incrociano diverse culture, a mediare continuamentetra le sue idee-costruzioni, non ha un se stesso rigido, ma aperto allapopolazione sempre nuova che incontra. I suoi “desideri” sono “misurati”: una sera,un’alba, un sentiero, non ha proprietà da accumulare, mura o confini da difendere;e perciò è autentico senza maschere da indossare.Il Viandante è insomma la metafora di una disponibilità ad esporsi all’incontrocon l’altro comunque, quindi al riconoscimento di tutte le diversità, di tutte le differenze.Ma per fare questo, per arrivare a questo atteggiamento, quello del Viandante,ci vuole coraggio perché “nella nuova società dell’indifferenza”, cresce e si radicala paura per l’altro, per lo straniero, per il diverso.Sul terreno dell’indifferenza ci persuadiamo poco a poco che gli altri rappresentinouna minaccia e viviamo guardinghi e vigili in una specie di “stato d’animod’assedio”, prevenuti ad ogni incontro umano, omologati in deserti di noncomunicazione,seppur mascherati spesso da frasari convenzionali ed impersonali.In questa cultura di disidentità deleghiamo “la nostra vita ai tecnici”, chiedendoloro che ci spieghino, ci dicano, ci chiariscano, ci rassicurino.Il problema non è la mancanza di conoscenza, ma un timore che paralizza, chenon si lascia penetrare dalla vita, che non la fa uscire dalle nostre piccole prigionidi sicurezze (delegando agli altri ogni responsabilità e le sue conseguenze): quelleche Giovanni Moretti, nel suo libro “Un clown sul divano”, ha chiamato “le formemorte della vita”.L’invito e l’augurio è di cercare nei nostri “Chiarori del Bosco”, nel nostro“Cuore”, nel diventare “Viandante”, quali metafore vive e attive del nostro animo,il coraggio della solidarietà, perché nella ormai mia abbastanza lunga esperienza dipsichiatra ho potuto constatare come la “pena” che deriva dal sentirsi “non amati,rifiutati, abbandonati, sia un vero e proprio cancro psicologico”.E concludo sottolineando che l’attenzione e la disponibilità per chi soffre didisturbi psichici non è un semplice atto di pietà, un atteggiamento pietistico, mauna necessità vitale per tutti noi, per riconoscere e ritrovare la nostra umanità.122
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