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Creaturine - Sardegna Cultura

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caffè. La febbre di intemperie stava dilagando. Solo quando<br />

le acque della malattia si ritiravano per un poco poteva<br />

rifiatare; ma quando la febbre ritornava doveva dimenticare<br />

tutto e riprecipitarsi nelle case. Venga dottore, faccia<br />

presto, lo supplicava la gente per le strade strattonandolo<br />

per i calzoni, strappandogli le tasche della giacca, spingendolo,<br />

facendogli saltare in aria i bottoni del gilè per via<br />

di quella gamba stravagante che dava sempre a credere di<br />

volersi involare verso la direzione opposta. L’emergenza<br />

durò quattro mesi. Alla fine, camminando con lo sguardo<br />

a terra e le mani nel cappotto, immerso nei suoi pensieri si<br />

ritrovò senza accorgersene di nuovo sotto l’insegna del<br />

Godimondo. Sembrava passata un’eternità.<br />

Riprese a frequentarlo.<br />

Rosario aveva tentato di tutto per scongiurare l’influenza<br />

dilaniandosi in lunghe notti di veglia, ma la malattia entrava<br />

come impazzita nella stanza e una volta dentro sferrava<br />

con gioia i suoi attacchi di scimitarra. La malattia era<br />

azzurra e aveva una valigia di maschere: lo stupore, lo sfinimento,<br />

il delirio. Rosario le conosceva bene, le conosceva<br />

tutte ancor prima che lei la aprisse per mostrargliele.<br />

La malattia aveva occhi chiari e braccia da uomo, si muoveva<br />

con eleganza, la sua veste lambiva il pavimento con<br />

grazia, dai suoi pugni dischiusi risalivano i fili di una vecchia<br />

canzone, la canzone di un bambino morto di treno alla<br />

sua mamma, una canzone così triste e malinconica da<br />

privarlo di energia ancor prima di mettersi all’opera ma<br />

soprattutto da spogliarlo di quel riverbero di cui si illuminava<br />

la sua figura alla vista dell’infermo. Un motivo che<br />

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doveva aver già sentito da qualche parte, forse per strada<br />

o per i corridoi dell’orfanotrofio che lo accompagnava<br />

spesso andando al lavoro o tornando a casa, un motivo<br />

cantato da tutti, dagli stessi morenti, dai parenti, dai conoscenti,<br />

e che egli aveva imparato a fischiettare come se<br />

nulla fosse, come se non sapesse che quella era la canzone<br />

degli addii, la canzone preferita dalla malattia.<br />

La malattia era paziente, ostica, risoluta. Rosario la conosceva<br />

bene. Quando egli metteva piede nella stanza la<br />

trovava già lì ad aspettarlo. Sapeva che vi sarebbe rimasta<br />

per giorni, per settimane o mesi se necessario, seduta<br />

con le gambe accavallate sulla poltroncina buona in attesa<br />

di quelle parole benedette che ogni medico dovrà<br />

pur dire prima o poi una volta nella vita: “ci vorrebbe<br />

un miracolo.”<br />

Da tanto sfacelo si riebbe poco alla volta aiutato dalle<br />

atmosfere del Godimondo, dai suoi rombi di fumo a<br />

mezz’aria, dallo schiocco delle biglie del biliardo, dal<br />

giallo denso delle lanterne a gas. Grazie a tutto questo si<br />

riebbe come pure grazie a Iolanda Zara, alla sua voce<br />

calda e ai suoi bicchierini magici.<br />

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