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Creaturine - Sardegna Cultura

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sertare di sangue benché digiuno di medicina, libero di<br />

osservare, di ascoltare, di respirare pur non sentendosi<br />

propriamente libero. Il suo corpo seppe di orfanotrofio<br />

quando parlò di un caffellatte morto ai moscerini e alle loro<br />

madri. Quando parlò di sé alle creature accanto il fiume<br />

odorò di chiesa, il fico seppe di mogano, il canneto<br />

sbuffò note d’organo dagli intervalli immaginari. Senza<br />

stancarsi ancora continuò a parlare di tutto spronato dalla<br />

curiosità della notte, felice di quel raccoglimento, felice di<br />

appartenerle, di sentire sulle spalle il tocco fraterno delle<br />

ore che trascorrono via. Poteva aspettare, ancora, attendere,<br />

lì, fermo, se avesse voluto, un’altra notte e un’altra<br />

ancora, senza impazienza, senza un dove, senza un impegno<br />

o un appuntamento, solo godendosi le carezze dell’acqua<br />

sugli alluci o il vento d’ali dei pipistrelli tra le ciglia.<br />

Tutto era tranquillo. Anche il corpo era in pace. Lo<br />

stomaco riposava nella sua culla naturale e il cuore era un<br />

orologino e una compagnia. Così rinfrancato parlò di sé,<br />

del bruco d’orfani, dell’amico canterino fatto esibire in<br />

gonna.<br />

– Nicola!<br />

Alla mezzanotte i pesci pronunciarono il suo nome, una<br />

stella si staccò dal soffitto e precipitando inondò di luce<br />

suo padre che gli sedeva accanto. – Nicola… – la voce di<br />

suo padre si mischiò a quella di pesci, alla musica del canneto,<br />

alla sarabanda di insetti magi carichi di doni per il<br />

giovane principe amico delle acque. Il ragazzo non si voltò<br />

ma sentì la mano sulla spalla. Non si voltò perché era certo<br />

che voltandosi avrebbe visto solo quel che era, un trucco<br />

della notte e niente più. Si accontentò di ascoltare. –<br />

Guarda, – gli disse suo padre. Era certo che fosse lui. La<br />

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sua voce si mischiò a quella dei pesci, alle note d’organo,<br />

al tramestio delle radici. – Guarda là Nicola, – il ragazzo<br />

sollevò il capo e vide in alto sette volti iridescenti che lo<br />

guardavano felici. Erano i suoi parenti, quelli che non<br />

aveva conosciuto mai: gli sorridevano e gli mandavano<br />

baci. Sporgendosi dai loro oblò sembrava che parlassero,<br />

che volessero dirgli qualcosa, muovevano le labbra ma<br />

voci non ne udiva salvo quella di suo padre che li elencava<br />

uno ad uno, salvo quel mormorio di trampolieri, pesci,<br />

pulci d’acqua e canne che seguitavano a diffondere il suo<br />

nome.<br />

Erano trucchi della notte e niente più. Spense le luci<br />

della mente e s’addormentò. Aveva diciannove anni. L’indomani<br />

lasciò il fiume e s’incamminò su per le colline dove<br />

il maestrale curvava la dignità delle piante più severe.<br />

Sentiva nelle vene scorrere vino di settembre. Sedette su<br />

un muretto, uno di quei muretti a secco che sull’isola separano<br />

un dialetto dall’altro. Tirò fuori come un gioiello il<br />

suo libro dalla bisaccia. Sdentellando more lo sfogliò di<br />

nuovo. – Che fortuna, – disse sollevando lo sguardo verso<br />

la foresta di lecci dove si apprestava a vivere. – Che fortuna,<br />

– ripeté stringendolo nelle ginocchia. Aveva il suo libro,<br />

il libro trovato, il talismano, l’oracolo da consultare o<br />

da interrogare o anche solo da toccare ma soprattutto da<br />

leggere a voce alta alle cinque pecore che al tramonto<br />

d’un giorno d’inverno trovò in un camposanto di campagna<br />

intente a brucare l’erba delle tombe.<br />

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