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Creaturine - Sardegna Cultura

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di vita all’aperto e il giorno in cui per la prima volta aveva<br />

messo piede in un’aula scolastica col diploma di maestro<br />

era già un uomo di ventisette anni.<br />

Erano stati anni opachi e difficili trascorsi a interrogare<br />

tabelline sui volti anemici dei suoi bambini devastati dallo<br />

scorbuto. Non poteva sopportare la vista di quelle gengive<br />

aperte e sanguinanti nel sorridere, le deformazioni degli<br />

arti, la muscolatura morta sotto le mani afflosciate come<br />

stracci sui banchi. E quando non era un’emorragia a<br />

portarseli via ci pensava la malaria a calare il suo cappello<br />

di zanzare sulla città.<br />

Nonostante in principio l’entusiasmo per la professione<br />

lo avesse distolto dallo stillicidio di drammi che andava<br />

sgranandosi davanti ai suoi occhi, già prima della fine dell’anno,<br />

il primo d’insegnamento, non poté esimersi dal<br />

constatare che nell’incavo del calamaio metà dei banchi<br />

della classe portava acceso dentro un lumicino.<br />

Per dieci anni visse rinchiuso in un morbo di dolore.<br />

Ogni morte era una sua morte. La vedeva arrivare di lontano<br />

nei cerchi viola intorno agli occhi dei suoi bambini,<br />

negli ossi enormi e bianchi dei ginocchietti, negli ematomi<br />

sul petto e sull’addome. Facendo capo ad ogni più<br />

sommersa energia si sforzò di mostrare loro l’uomo sempre<br />

in festa, allegro e spensierato, prodigo di sorprese e<br />

scherzi d’ogni genere e d’ogni genere di novità. Davanti ai<br />

loro sguardi attoniti fingeva di ignorare le linguacce con<br />

cui la malattia con insolenza e dappertutto si mostrava.<br />

Fingeva di ignorare che ogni asta, ogni vocale o sillaba,<br />

ogni ricciolo di numero ricomponevano all’infinito la medesima<br />

sentenza.<br />

Nell’estate del suo decimo anno di insegnamento una<br />

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brutta epidemia di tifo colpì la città. Si ritrovarono in due,<br />

uno di fronte all’altro, nell’aula deserta. Avrebbe voluto<br />

fianchi e ventre di donna per tenerselo addormentato<br />

dentro quel bimbo scalzo e orfano di tutto, con le croste<br />

in faccia e il grembiulino a metà coscia strappato, in piedi<br />

davanti a lui come un soldatino in attesa di ordini, avrebbe<br />

voluto parlargli a lungo e spiegargli perché certe cose<br />

accadano e come pure la vita riprende e continua, basta<br />

non perdere la fiducia nel buondio basta scrollarsi di dosso<br />

ogni più nero pessimismo e come per magia l’esistenza<br />

riprende il suo corso e tutto ritorna a sorriderci come prima<br />

e persino noi ce ne stupiamo tanto sembrava irreparabile<br />

ogni cosa che il mondo è fatto così mio caro, mio tenero<br />

fanciullo e l’unica cosa che ci resta da fare è prenderne<br />

atto badando a rafforzarci dentro per non essere sopraffatti<br />

dagli abusi del destino; ma le uniche parole che ebbe<br />

la forza di dire furono: – Vada pure, – e gli uscirono come<br />

uno sputo, come un pezzo di cibo che schizza via, una nefandezza.<br />

Era stato così che aveva abbandonato tutto ritornando<br />

alla sua vecchia inclinazione per le scienze naturali. Riprese<br />

a frequentare i boschi intorno alla città e nessuno per<br />

anni ebbe più modo di vederlo se non per i brevi periodi<br />

in cui faceva ritorno alla sua casa sulla piazza. Aveva riempito<br />

le stanze di gabbiette e recinti, a dimora di decine di<br />

animali che studiava e esaminava a lume di candela. Aveva<br />

gabbie e bestiole dappertutto, appese al soffitto, sui tappeti,<br />

sotto le madie ed i sofà, persino nelle camere da bagno.<br />

La gente aveva cominciato a preoccuparsi, dicevano<br />

si cibasse di licheni, e quando un mattino e per caso bussarono<br />

alla sua porta per una questua furono in tanti, nel<br />

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