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2. DIMENSIONE ECONOMICA E BENI COMUNI PRODUTTIVI. — È necessario rendere evidente che<br />

l’espressione beni comuni non è un campo neutro. Molte analisi sulle trasformazioni dei processi produttivi,<br />

con maggiore intensità a seguito dell’esplosione della crisi, registrano il propagarsi di un discorso<br />

sui commons che si inserisce perfettamente dentro il paradigma neoliberista (3): sharing economy<br />

(4), capitalismo cooperativo, piattaforme digitali, economia dello scambio e/o del dono, Airbnb,<br />

Uber, Spotify, peer to peer, crowdworking, consumo collaborativo… Possiamo senz’altro leggere questa<br />

tendenza come un’incrinatura dell’istituto della proprietà: affitti e servizi temporanei prendono il posto<br />

del possesso, ma riproducendo privilegi e potere di classe. Abbiamo a che fare con strategie di<br />

marketing sempre più elaborate, capaci di organizzare la cooperazione volontaria dei clienti/cittadini<br />

(Dardot, Laval, 2015), i quali rimangono però del tutto esclusi dalle decisioni e dalla gestione delle risorse<br />

(5). Una riserva gratuita di manodopera inesauribile a costo zero, sia in termini economici che di<br />

riconoscimento politico-sociale. Come evidenziano i diversi studi che – da Federica Giardini a Cristina<br />

Morini a Silvia Federici – tracciano punti di convergenza tra teorie del comune e progetti politici del<br />

femminismo, questa appropriazione di immense quantità di manodopera e di risorse relazionali e cognitive<br />

trova il suo modello storico nel lavoro domestico non retribuito e riproduttivo che le donne<br />

hanno fornito.<br />

In parallelo – se ci spostiamo dal terreno della produzione capitalistica a quello delle ristrutturazioni<br />

governamentali statuali o post-statuali – ritroviamo dispositivi e tecniche di governance che chiedono<br />

partecipazione e collaborazione. Una partecipazione completamente svuotata, che non ha altro<br />

obbiettivo se non di costruire consenso.<br />

A me sembra che le proposte che spingono sulla sussidiarietà (6) (in Italia rappresentate dall’esperienza<br />

di Labsus, Laboratorio per la sussidiarietà di Bologna) siano del tutto compatibili con il<br />

framework delineato della new economy neoliberista. Il modello di riferimento si basa sul lavoro, ma<br />

volontario e gratuito; sul fare comune, ma entro la cornice dell’amministrazione pubblica statuale; sulla<br />

gestione della partecipazione, ma in una modalità del tutto aconflittuale. Viste da questa prospettiva,<br />

possiamo leggerle come ristrutturazioni delle tecniche di governo nella direzione della governance, non<br />

diversamente dalle ambivalenti politiche di decentramento e di autonomie locali (spesso promosse da<br />

partiti “di sinistra”) che, negli ultimi decenni e di pari passo con privatizzazione e aziendalizzazione del<br />

pubblico, sono state vettori di maggiori diseguaglianze sociali e <strong>spazi</strong>ali (7). Non vi è dubbio che i<br />

movimenti abbiano svolto su questo piano un’efficace azione di contronarrazione, contrapponendo<br />

l’autogoverno dal basso ad ipotesi di governance dall’alto dei beni comuni, sviluppando indicazioni<br />

traducibili anche nel lavoro di analisi critica.<br />

Illustrazione. Già all’inizio del 2012, il Manifesto per la Cultura promosso da Il Sole 24 Ore (8) esplicitava una torsione<br />

di questi temi in chiave neoliberista proprio nel terreno della produzione culturale, dettando il programma<br />

politico: il farsi-impresa-della-società, con imprese autonome di cittadini e/o comunità e/o imprenditoria privata<br />

che prendono in carico <strong>spazi</strong>, servizi (e occasioni di profitto) dismessi dal welfare, predisponendo soluzioni di ef-<br />

(3) Virno (2001a); Hardt, Negri (2010); Marazzi (2010a). Per una lettura in chiave femminista, cfr. Giardini, Simone (2015).<br />

(4) Solo qualche articolo di riferimento: http://www.left.it/2015/08/24/sharing-economy-uber-airbnb; http://www.connessioni<br />

precarie.org/2014/02/28/come-gli-operai-folla-sono-diventati-i-fantasmi-della-macchina-digitale; https://www.che-fare.com/lavoro-ilritornodel-turco-<br />

meccanico.<br />

(5) Ancora Harvey mette in guardia dal replicare l’abbaglio di Garnet Hardin in The Tragedy of the Commons, che consiste nell’aver<br />

creduto che il regime dei commons comprendesse solo i pascoli e non anche le greggi, gli ovili e l’intera economia del villaggio, in Harvey (2011).<br />

(6) Il principio di sussidiarietà è regolato dall’art. 118 della Costituzione italiana il quale prevede che “Stato, Regioni, Province, Città<br />

Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,<br />

sulla base del principio della sussidiarietà”. Tale principio implica la tutela e il libero svolgimento delle attività prevalentemente a carattere di<br />

volontariato e solidaristiche. Molto più forte come punto d’appoggio è l’art. 43: “A fini di utilità generale la legge può riservare<br />

originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti<br />

determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed<br />

abbiano carattere di preminente interesse generale”. Il riferimento alle comunità di lavoratori prelude alla possibilità di individuare beni<br />

comuni produttivi e ad azioni di collettivizzazione.<br />

(7) Sul tema delle procedure di governance e delle sue evoluzioni nella crisi cfr. Negri (2010); Chignola (2010).<br />

(8) http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-02-18/niente-cultura-niente-sviluppo-141457.shtml?uuid=AaCqMotE.<br />

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