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versa, in quanto possono essere affittate, vendute o liquidate: l’affitto è ammesso quando esiste una<br />

concreta possibilità che l’attività possa continuare o ripartire. In tal caso può essere affittata a pagamento<br />

a enti pubblici o privati, o gratuitamente a cooperative di lavoratori. La vendita, più rara, o la<br />

liquidazione avvengono se possono portare un beneficio maggiore per l’interesse pubblico. La liquidazione<br />

o il fallimento decretano l’insuccesso dell’attività di legalità dello Stato. Al contrario la sua<br />

sopravvivenza contribuisce al consolidamento del capitale sociale locale. Tuttavia non mancano le voci<br />

dissenzienti che sostengono, con qualche ragione, che i costi che sostiene l’operatore pubblico per il<br />

mantenimento di piccole e piccolissime imprese siano insostenibili e pertanto sarebbe più opportuno<br />

porle in liquidazione (Mannisi, 2015). Recenti progetti di riforma del settore propongono l’istituzione<br />

di un fondo di rotazione per rendere a queste aziende più facile l’accesso al credito, in quanto sovente<br />

non riescono ad accedere ai normali canali di finanziamento. Tutte queste azioni configurano una<br />

strategia, ancorché frammentaria, volta a innovare l’organizzazione territoriale e la comunità locale.<br />

Una strategia che deve potersi avvalere, tra l’altro, di adeguate competenze tecnico-gestionali e progettuali,<br />

nonché di una non indifferente capacità di creare coalizioni e coordinamento tra i diversi<br />

stakeholders. Una strategia in cui l’imprenditorialità sociale potrebbe concretamente assumere un<br />

ruolo strumentale determinante, rappresentando questo il terreno certamente più propizio per il ricorso<br />

all’impresa sociale (Baldascino, Mosca, 2012; Libera, 2014b). E, in effetti, una corretta strategia<br />

di contrasto alla criminalità organizzata dovrebbe necessariamente contribuire non solo a privarla<br />

delle risorse illecitamente acquisite, che le consentono di esercitare un forte potere di controllo e domino<br />

sul territorio di riferimento, ma, soprattutto, dovrebbe permettere di indebolire e distruggere il<br />

capitale sociale mafioso, inteso come quell’intensa rete di relazioni che consente alle associazioni criminali<br />

di assoggettare e dialogare proficuamente con il contesto economico e sociale in cui agiscono,<br />

traendo ulteriore vantaggio dalla posizione di intrinseca forza e assumendo la falsa veste di un comune<br />

operatore di mercato (Sciarrone, 2009; 2011). Pertanto, i percorsi di imprenditorialità sociale sui beni<br />

confiscati, grazie ai quali viene, ad esempio, offerta ai giovani la possibilità di lavorare in cooperative<br />

sociali e di intraprendere processi di inclusione collettiva dei soggetti svantaggiati, fungono indubbiamente<br />

da buone pratiche che andrebbero riprodotte più frequentemente ed efficacemente, non solo<br />

per l’elevato valore simbolico di simili esperienze ma, anche e soprattutto, in quanto tramite le stesse è<br />

possibile rigenerare quel capitale sociale del quale le mafie si sono illecitamente impadronite (Dalla<br />

Chiesa, 2014). E in effetti, l’impresa sociale costituisce, per la sua struttura giuridica ed economica<br />

particolarmente flessibile, una soluzione certamente percorribile in quest’ottica, presentando una<br />

quasi fisiologica predisposizione nel campo della riallocazione dei beni confiscati, soprattutto quelli<br />

aziendali il cui uso appare sempre più problematico, nonché nell’ambito della creazione di capitale<br />

sociale in grado di apportare una forte remunerazione, in termini relazionali, a vantaggio dell’intera<br />

collettività (Lo Bue et al., 2015).<br />

La gestione dei beni immobili appare più interessante per la loro afferenza alla categoria dei beni<br />

comuni (la finalità sociale per l’afferenza alla categoria dei beni comuni è specificatamente prevista:<br />

cfr. Mattei et al., 2010). Le norme che prevedono l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie implicano<br />

la restituzione di questi beni, attraverso l’assegnazione a cooperative e associazioni, alla comunità locale<br />

che ha subito le conseguenze di comportamenti illeciti. Questo riutilizzo a scopi collettivi sociali<br />

ha il doppio obiettivo di indebolire le organizzazioni criminali e di riaffermare il principio di legalità<br />

in contesti in cui le organizzazioni mafiose hanno costruito radici. Si è già scritto che i beni immobili<br />

possono rimanere nella disponibilità dello Stato oppure delle amministrazioni locali (Comuni, Province,<br />

Regioni) che gestiscono direttamente il bene o lo assegnano gratuitamente a gruppi giovanili,<br />

organizzazioni volontaristiche, cooperative, centri terapeutici e riabilitativi per tossicodipendenti, associazioni<br />

per la protezione ambientale.<br />

A tal proposito giunge utile riportare una ricerca di Libera del 2014 sulle buone prassi di utilizzo<br />

dei beni confiscati: sono 448 le realtà sociali che gestiscono beni confiscati alle mafie, di cui 139 nel<br />

Nord, 36 nel Centro e 273 nel Sud e nelle Isole. La regione con il maggior numero di esperienze posi-<br />

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