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zante. Cosa significa oggi preoccuparsi del paesaggio e cosa presuppone per il futuro? Cura e mantenimento<br />

nell’assetto così come tramandato dalla generazioni precedenti (strada difficilmente perseguibile<br />

in svariati contesti)? O restauro (magari secondo antichi ordini colturali e culturali)? La legislazione<br />

più recente – nelle sue diverse forme – si è pronunciata in materia, in ragione di un pregresso che<br />

ha agito a livello territoriale per lo più senza criterio dando luogo a esiti paesaggistici problematici. I<br />

paesaggi non urbani, pianeggianti in particolare, sono stati infatti alterati (dalla presenza, ad esempio,<br />

di capannoni e case a schiera o dall’abolizione dei filari degli alberi a favore delle monocolture). La<br />

pianura padana ne è esempio. La logica promossa dalla Convenzione europea del paesaggio obbliga sia<br />

la collettività sia il ricercatore in primis a interrogarsi sulla componente estetica e percepita. Cosa rimane<br />

del bello e come evolve tale concetto? Cominceremo ad amare i paesaggi “disfatti” del post-industriale<br />

(cresciuti a caso con una commistione di forme e di “artefatti”) o semplicemente saremo costretti<br />

a convivere con essi? Possiamo puntare, invece, al vivificare i territori favorendo la rigenerazione<br />

e ricostituendo assetti produttivi ed economici che parlino di reintegro a che i paesaggi siano armonici<br />

e non divengano oltre che causa di aggravio di rischi preesistenti anche generatori di nuovi?<br />

Se – come detto in apertura – uno dei modi più intriganti di considerare il paesaggio è come “progetto<br />

sociale”, diviene imperativo che l’attore collettivo si ponga le domande di cui sopra, interrogandosi<br />

a monte e a valle sulla vision e la mission che ispirano il progetto e la sua implementazione. Questo<br />

affinché il suo dispiegarsi non sia un’affannosa rincorsa ex post per ovviare ad effetti indesiderati<br />

non sufficientemente ponderati ex ante. Un progetto insomma che implichi un più consapevole perseguimento<br />

di quella auto-sostenibilità (Magnaghi, 2000) che non deterritorializza l’azione dell’uomo e<br />

non si traduce in forme di conservazionismo, localismo o attaccamento egoistico. Il rischio sarebbe<br />

quello di derive negative sui versanti sociali. Un progetto che – ponendo al centro la chiusura di cicli,<br />

la sicurezza, e la questione del valore d’uso da lasciare alle generazioni future – ripristini la relazione<br />

tra uomo e natura all’insegna di un colloquio più equilibrato tra le dimensioni sociale, economica,<br />

ecologica, geografica e culturale.<br />

Federico Martellozzo: Università di Roma La Sapienza; federico.martellozzo@uniroma1.it<br />

Luca Simone Rizzo, Università di Padova; lucasimone.rizzo@unipd.it<br />

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