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AaVv_Commons_2016_intero

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Gli interrogativi su richiamati ci hanno guidato su un terreno tutto da esplorare, arricchito da un<br />

approccio interdisciplinare e sistemico, che ha permesso di accostarci alla problematica, non solo con<br />

una varietà di strumenti teorico-concettuali e metodologici ma anche, e in primis, da punti di vista e<br />

prospettive differenti. Al riguardo, si impone una brevissima digressione sul concetto e l’utilizzo della<br />

locuzione “bene comune” e un chiarimento sul senso attribuito. Nella consapevolezza che il dibattito<br />

accademico nasce “viziato” dall’accostamento della res communis con la res nullius (Hardin), che non<br />

vi è una definizione univoca di beni comuni ma ne esistono diverse anche a seconda degli ambiti disciplinari<br />

in cui nascono – impostazione economica (Ostrom), giuridica (Rodotà, Lucarelli e altri), socio-filosofica<br />

(Negri), ecc. – e delle prospettive geo-storiche, degli ambienti e delle tradizioni culturali<br />

da cui si originano e che, infine, esse si moltiplicano con lo sviluppo della riflessione sugli stessi (beni<br />

comuni globali, beni comuni locali, new commons, ecc.), è stato adottato un approccio pluralistico<br />

fondato su un’interpretazione percettiva e multiscalare. Si è ritenuto di considerare “bene” ogni oggetto<br />

materiale o immateriale o ogni attività che possa essere identificata o percepita come tale almeno<br />

in via potenziale; mentre per quanto riguarda il termine “comune” non è stato posto alcun limite di<br />

scala alla definizione della comunità che gestisce e fruisce del bene.<br />

Alcuni lavori presentati sono accomunati dall’oggetto, ovvero l’acqua e il servizio idrico – che la<br />

rende accessibile da un punto di vista <strong>spazi</strong>ale (attraverso il sistema infrastrutturale) e qualitativo (con<br />

i processi di potabilizzazione) – le cui riflessioni si intrecciano con quelle di beni diversi ed esperienze<br />

territoriali caratterizzate (o finalizzate) da forme collettive di gestione.<br />

Per quanto riguarda il servizio idrico, partendo dalla premessa che in Italia è gestito essenzialmente<br />

da società per azioni (a capitale pubblico, misto, privato), i tre studi proposti poggiano le loro<br />

tesi sul presupposto fondato empiricamente che la gestione privata a scopo di lucro non garantisce il<br />

diritto umano all’acqua potabile (sancito dalla Risoluzione ONU del 2010) e che la titolarità pubblica<br />

del servizio sia condizione necessaria ma non sufficiente a garantire accesso alla risorsa e giustizia<br />

socio-<strong>spazi</strong>ale, soprattutto in mancanza di un quadro giuridico attuativo. Su questa base e da scale di<br />

osservazione (regionale, nazionale, globale) e approcci disciplinari (geografico-economico e giuridico)<br />

differenti, il ragionamento si sviluppa su tre step.<br />

Il primo (Ciervo) tende a dimostrare che – indipendentemente dalla natura vitale del bene e dalla<br />

titolarità pubblica del servizio, nonché dalle condizioni amministrative (unico azionista), politiche (sostegno<br />

teorico ai beni comuni) e tecniche (economia di scala) favorevoli – la SpA a intero capitale<br />

pubblico o in house produce effetti analoghi a quelli prodotti dalle SpA private o miste in termini di<br />

potere di accesso alle risorse da parte degli abitanti e della loro capacità di incidere sui processi decisionali<br />

in quanto la forma giuridica privata a scopo di lucro determina gli obiettivi legali e, dunque, le logiche<br />

e le politiche di gestione. Pertanto, tale forma di gestione non può essere considerata strumento<br />

capace di garantire il diritto umano, la fruizione collettiva e la funzione sociale dell’acqua e, per estensione,<br />

degli altri beni comuni.<br />

Il secondo step (Moramarco) si focalizza sul fatto che anche la forma di gestione pubblica (ad<br />

esempio, l’azienda speciale) – benché “più idonea per la sua più stretta dipendenza dal potere politico”<br />

che “al netto delle note degenerazioni, è il luogo della democrazia, dove nascono le norme alla<br />

luce del contemperamento dei diversi interessi” – non sia sufficiente a garantire una gestione coerente<br />

con la qualificazione dell’acqua come bene comune. Del resto, la partecipazione prevista dalla normativa<br />

vigente in materia d’utenza pubblica è riduttiva da un punto di vista sia dei soggetti coinvolti – gli<br />

stakeholder e non i cittadini – sia dei temi oggetto di confronto e attinenti, essenzialmente, alla qualità<br />

del servizio, mentre i casi più all’avanguardia in Italia (Azienda speciale ABC di Napoli) come in Francia<br />

(Eau de Paris) rimangono a livello di iniziative volontarie. Al riguardo, si propone l’introduzione<br />

di “correttivi” che consentano una gestione e un controllo democratico, come meccanismi a garanzia<br />

della partecipazione degli utenti.<br />

Proprietà e gestione pubblica sembrano elementi non in grado di garantire la sovranità collettiva<br />

e, dunque, l’accesso alle risorse e la giustizia socio-<strong>spazi</strong>ale, neanche con riferimento al patrimonio<br />

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