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l’opinione pubblica che caratterizzano le società di massa. Parola e azione da una parte, riflessione e<br />

giudizio dall’altra sono dunque le matrici che danno luogo allo <strong>spazi</strong>o pubblico. Entra qui in gioco la<br />

facoltà di giudizio, ovvero quella “capacità di discernere giusto e sbagliato, bello e brutto”, attitudine<br />

che per essere esercitata richiede, come si diceva, la presenza sia di un attore che di uno spettatore.<br />

Stiamo parlando di quel tipo di giudizio indagato da Immanuel Kant nella sua terza Critica, che<br />

Hannah Arendt rilegge in chiave politica, svincolandolo dall’ipoteca di trattato sull’arte cui è stato prevalentemente<br />

associato. Come ha ribadito Alessandro Ferrara,<br />

la Critica della facoltà di giudizio è un trattato di estetica, e questo fatto in qualche modo è stato una disgrazia, perché<br />

ha contribuito a confinare la fortuna delle intuizioni in essa contenute agli ambiti dell’arte e della bellezza naturale.<br />

Invece, il paradigma metodologico da essa inaugurato estende la sua rilevanza ben oltre questi due territori<br />

(Ferrara, 2008, p. 91).<br />

Dunque sia l’arte che la politica appartengono alla sfera pubblica, essendo entrambi fenomeni<br />

“mondani”, in quanto si offrono alla vista, condizione indispensabile per giudicare. E la formulazione<br />

del giudizio non è un qualcosa che, una volta formatosi, rimane ubicato all’interno della prospettiva del singolo:<br />

per sua natura richiede di essere enunciato, dispiegato, illustrato. Sia nel caso del giudizio politico<br />

che in quello estetico scaturisce l’urgenza di poter essere comunicato ad altri, per cercare la loro<br />

approvazione, una sorta di attestazione che non si tratti della mia personale opinione bensì che vi sia<br />

un qualcosa che trascenda la mia singolarità, in modo che il mio giudizio non rimanga vincolato alla<br />

sfera privata ma esiga un’universalità – nonostante sia un tipo di universalità alquanto curiosa, poiché<br />

non conferita da un principio già dato (in quel caso potrei sussumere il mio giudizio al di sotto di un<br />

principio o una legge, vale a dire sotto regole sicure che renderebbero superflua ogni discussione con<br />

gli altri). È ciò che Kant ha chiamato “giudizio riflettente”, distinto da quello determinante:<br />

Il giudizio di cui si parla nella Critica kantiana, il giudizio riflettente, è proprio il giudizio che non può<br />

contare su una regola già data, ma che deve costruirne una, esemplarmente, a partire da casi particolari<br />

non già compresi sotto una regola universale. In questo caso, a certe condizioni analizzate nella prima<br />

parte della Critica, il mio giudizio, senza appellarsi a norme precostituite, pretenderà un consenso da<br />

ciascun altro giudicante e si porrà come “esempio di una regola universale che non si può addurre”<br />

(§18) (Velotti, 2006, p. 5).<br />

Torniamo alla scena pubblica: la tipologia di azione che vi trova sede, abbiamo detto, è performativa:<br />

vi risultano accomunati parola ed agire. Considerati oggi due ambiti sostanzialmente distinti, nell’interpretazione<br />

di Hannah Arendt azione e discorso hanno goduto di un’originaria unità che, a livello<br />

storico, si è eminentemente manifestata nel meccanismo della polis greca. In effetti per i greci questa<br />

differenza non era percepita come tale e la parola era considerata un modo di agire. Il tentativo è<br />

quello di restaurare questa iniziale connessione, virtuosa per la vita democratica, ed è questo il movente<br />

che spinge la Arendt ad analizzare la polis, non come “nostalgica” di questa istituzione o “utopista”<br />

(Habermas, 1984), dal momento che come forma di governo essa era emersa in un preciso ed irripetibile<br />

contesto storico e culturale, ma in virtù del suo funzionamento prototipico:<br />

La polis, propriamente parlando, non è la <strong>città</strong>-stato in quanto situata fisicamente in un territorio; è<br />

l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme, e il suo autentico<br />

<strong>spazi</strong>o si realizza fra le persone che vivono insieme a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui<br />

si trovano (Arendt, 1991, p. 204).<br />

Tirando le somme, la tipologia di <strong>spazi</strong> invocata da Hannah Arendt potrebbe essere definita “<strong>spazi</strong>o<br />

di apparenza”. Condizione essenziale è l’incontro tra uno spettatore ed un attore, che si confrontano<br />

e giudicano, senza regole già date che facciano da “corrimano per il pensiero” (6).<br />

(6) Bannister o Geländer sono i termini utilizzati da Arendt. Si veda Velotti (2006).<br />

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