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Le loro azioni sono piuttosto come delle “opere d’arte che inaugurano stili nuovi” che con “uno e<br />

un solo gesto ci dischiudono nuovi modi di vedere” (Ferrara, 2008, p. 19), per le quali bisogna trovare<br />

un concetto; sono cioè degli esempi, dei “casi di una classe che non esiste” (Velotti, 2015), esempi di<br />

un senso normativo che non è già dato, ma è appena intravisto, attestato da quella spinta a cercare<br />

l’accordo dell’altro: “Potremmo dire che l’esemplarità di un’istituzione politica, di un elemento<br />

costituzionale essenziale, di un movimento collettivo consiste, non meno che l’esemplarità di un’opera<br />

d’arte, nella sua capacità di mettere in movimento l’immaginazione ‘politica’, grazie alla sua<br />

eccezionale autocongruenza” (Ferrara, 2008, p. 41).<br />

3. IL “COMUNE” DELLE OCCUPAZIONI. — Uno sguardo sul presente mostra quanto carattere performativo,<br />

esemplarità, deliberazione collettiva siano tratti rivendicati dalle esperienze di autogestione,<br />

come nel caso di ESC Atelier e di altre centinaia di occupazioni, romane e non, che per questa ragione<br />

non si risolvono con un bando pubblico o col tentativo di incasellarle in leggi già date (quando non nel<br />

ben più frequente tentativo di annullamento). Non è un caso che il movimento delle occupazioni, in<br />

particolare quello che si rifà al paradigma dei “beni comuni”, o meglio del “comune”, sia riuscito ad<br />

attivare l’immaginazione giuridica e politica di molti, per definire il tipo di pratiche attuate in questi<br />

<strong>spazi</strong> e per reclamarne la legittimità. Sorte per tutelare dalla privatizzazione un bene pubblico (dunque<br />

ripristinandone la funzione di uso collettivo), ma non riducibili alla sussidiarietà del pubblico, si tratta<br />

di esperienze molteplici, emerse spontaneamente e in via di intensificazione. Sebbene non chiaramente<br />

riconducibili ad una classe o categoria, sembrano tutte rivendicare l’aggettivo “comune”. Seguiremo<br />

qui in parte la formulazione teoretica di Dardot e Laval, che piuttosto che di “beni comuni” parlano<br />

del “comune”, senza bene: il comune è un principio, più che un bene, o meglio una modalità di organizzazione<br />

in cui l’accento è posto sul -cum: comune, declinato nell’accezione tutta politica di co-attività,<br />

co-decisione, co-produzione (Dardot, Laval, 2015, p. 41).<br />

Privilegiare il “comune” anziché il “bene” significa sbarazzarsi dell’idea – alquanto predominante<br />

nella letteratura sui beni comuni – dell’esistenza oggettiva di una nuova “tassonomia di beni”, per mettere<br />

di contro in risalto il rilievo della prassi che, di volta in volta, viene messa in opera, ponendo<br />

l’attenzione sul processo piuttosto che sull’oggetto. Il comune è dunque una prassi collettiva che sancisce<br />

uno <strong>spazi</strong>o relazionale. In Italia la consapevolezza di tale paradigma è emersa con tutta la sua forza<br />

a seguito di una data simbolica: il 12-13 giugno del 2011.<br />

4. IN PRINCIPIO FU L’ACQUA PUBBLICA. — Il termine “comune” acquisì una certa rilevanza in<br />

Italia a seguito della vittoria del referendum che riguardava, tra le altre questioni, la privatizzazione<br />

dell’acqua. Tenutosi nel giugno del 2011, il referendum raggiunse il quorum del 57% dell’elettorato<br />

avente diritto al voto; con il 96% della maggioranza che votò per il “sì”, si revocarono le leggi che volevano<br />

la privatizzazione dell’acqua. Il successo inaspettato del referendum, che proclamava l’acqua<br />

come bene comune, era partito da una delibera popolare, e comportò una maggiore consapevolezza da<br />

parte dei cittadini sul tema dei beni comuni; ma, come effetto a margine, ha consentito lo strutturarsi<br />

ed il convergere di un gruppo di attori alquanto eterogeneo della società civile: studiosi e famosi giuristi,<br />

movimenti sociali ed attivisti, cittadini ordinari e comunità locali hanno trovato un terreno di collaborazione<br />

(Bailey, Mattei, 2013). Una volta riconosciuta la portata del fenomeno, il movimento ben<br />

presto è andato oltre la salvaguardia dell’acqua come bene comune per diventare una forza culturale<br />

tanto della sfera politica quanto sociale, economica e giuridica.<br />

Non è un caso che il giorno successivo ai risultati del referendum, a seguito di una manifestazione,<br />

è stato occupato il Teatro Valle, il teatro più antico in uso nella <strong>città</strong> di Roma, costruito nel 1727, con<br />

lo slogan “Teatro Valle bene comune”. Da quel momento in poi è stata pienamente riconosciuta<br />

l’urgenza di proteggere alcuni beni contro il processo dilagante di privatizzazione, che ha avuto come<br />

spinta l’occupazione di alcuni <strong>luoghi</strong> significativi in diverse <strong>città</strong> italiane: la Cavallerizza reale a Torino<br />

(costruita nel Seicento e parte del patrimonio UNESCO, che stava subendo un processo di privatizza-<br />

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