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Storia popolare della filosofia - prova-cor

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dev’esservi per tutti, e che la cura di questa dev’essere pubblica e non privata […]. E’ evidente dunque che<br />

spetta alle leggi regolare l’educazione e farla pubblica”. 403<br />

Il sistema delle virtù.<br />

L’evoluzione del problema morale e la questione delle tre “Etiche”.<br />

Aristotele distingue la sfera pratica da quella teoretica: questa riguarda le modalità <strong>della</strong> conoscenza e comprende<br />

rappresentazioni mentali, opinioni e dati scientifici, che non hanno lo scopo di incidere sull’essere delle cose, ma si<br />

limitano a una pura contemplazione di esse; il loro fine è perciò ad esse intrinseco; quella, invece, riguarda l’attività<br />

mediante la quale gli uomini modificano il sistema dell’esistenza delle cose, introducono formazioni e nuove e<br />

modificano quelle esistenti; pertanto hanno il loro fine in ciò che producono nel mondo, in una realtà esteriore, in<br />

quell’alterità che è costituita però da “pragmata”, fatti prodotti dall’uomo (oggetti, comportamenti, istituzioni<br />

politiche). A un livello superiore si pone, poi, l’attività poetica, caratterizzata come creazione di opere specifiche (in cui<br />

dunque l’attività pratica si fonde con quella teoretica). “Etica” e “poetica” sono le parti <strong>della</strong> <strong>filosofia</strong> che riguardano<br />

l’attività pratica, relativa ai comportamenti comuni, e quella poetica, più propriamente creativa.<br />

Aristotele segue, nella fondazione <strong>della</strong> morale, un criterio naturalistico, per cui all’ordine stabilito dalla<br />

volontà razionale (dalla tensione dell’anima che, secondo Platone, spinta da Eros, perviene all’attuazione, nel<br />

mondo, di strutture etiche e politiche che sono un’imitazione dei modelli eterni costituiti sulla base dell’idea<br />

del Bene) sostituisce l’originario ordine “naturale”, che si estrinseca attraverso una serie necessaria di<br />

“cause”. Mentre per Platone la morale e la politica comprendono costruzioni umane, per Aristotele<br />

riguardano una sfera <strong>della</strong> natura, cioè quella propriamente umana. “La città appartiene ai fatti naturali”,<br />

dichiara Aristotele nella Politica (I, 1, 1253): la città, infatti, è basata su un carattere fondamentale dell’uomo,<br />

l’inclinazione alla società (“L’uomo è animale più socievole […] di ogni specie e di ogni altro animale che<br />

vive in greggi”, ib.). La stessa “differenza” tra gli uomini è radicata nella physis, per cui “per natura alcuni<br />

uomini sono liberi e altri schiavi” (I, 2, 1255). Poiché riconosce nello stato una determinazione <strong>della</strong> physis,<br />

Aristotele può considerarlo come un oggetto di indagine e di “scienza”: descrittivamente, lo esamina nelle<br />

sue forme possibili, con rigido criterio classificatorio. Così l’”eudaimonia” consiste nella piena attuazione<br />

<strong>della</strong> “natura umana”, in ciò che essa ha di proprio, la ragione; e le “virtù” non sono altro che aspetti<br />

dell’appetito naturale regolato dalla ragione. E’ stabilito nella natura dell’uomo che egli debba agire secondo<br />

virtù. Platone vede nell’ordine politico il fine dell’attività umana; per Aristotele, tale fine è dato<br />

dall’esplicazione di un’attività improntata alla ragione: così la scienza, la morale, la politica costituiscono<br />

sfere separate e ognuna fornita di una dignità propria, e tutte legittime e rispondenti al fine proprio<br />

dell’uomo. Siamo, cioè, nell’ambito di un’etica non necessariamente connessa a una prospettiva politica:<br />

l’esplicazione delle virtù costituisce già di per sé un bene per l’uomo.<br />

Lo Jaeger (1923) distingue tre fasi nello sviluppo dell’etica di Aristotele: 1) una fase platonica,<br />

rappresentata dal Protrettico; 2) una fase di riforma del platonismo, rappresentata dall’Etica Eudemea; 3) una<br />

fase propriamente aristotelica, rappresentata dall’Etica Nicomachea. La Grande Morale sarebbe, invece, soltanto<br />

un compendio privo di interesse, compilato da un peripatetico sulla base delle due etiche aristoteliche.<br />

Secondo W. Theiler (1934), quest’ultima opera sarebbe sì di stesura post-aristotelica, però effettuata sulla<br />

base di appunti di un <strong>cor</strong>so di lezioni che il maestro avrebbe tenuto nel periodo inter<strong>cor</strong>so tra la<br />

composizione delle due “Etiche”: perciò essa rappresenterebbe uno stadio di mezzo dello sviluppo dell’etica<br />

aristotelica.<br />

Aristotele ricerca, come oggetto dell’etica, quell’attività che realizza, in modo eminente, la natura umana:<br />

tale realizzazione (il conseguimento, da parte dell’uomo, di ciò che gli è di più proprio) è il fine dell’uomo,<br />

cioè ciò che per lui è il bene. Il “bene” non è qui inteso, alla maniera platonica, come lo stesso fondamento<br />

<strong>della</strong> realtà, il principio metafisico in base al quale il reale ha un senso (una “ragione”, un “logos”: e perciò è<br />

intelligibile), bensì in relazione all’uomo e alla sua attività, come ciò che mediante questa attività egli può (e<br />

deve) conseguire. Si tratta di un praktòn agathòn, cioè di un bene di valore e di carattere “pratico”. Questo è,<br />

tuttavia, un bene sommo, in quanto conferisce alla vita umana il massimo valore (costituendo il massimo<br />

grado di attuazione <strong>della</strong> natura umana). Tale bene coincide, dunque, anche con la felicità, poiché questa<br />

consiste nella piena attuazione, da parte di ogni ente, <strong>della</strong> propria perfezione.<br />

403 Pol., VIII, 1, 1337.

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