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Storia popolare della filosofia - prova-cor

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considerazione come possibile compito <strong>della</strong> <strong>filosofia</strong> (come rinnovata metafisica) nel contesto attuale. Se si dà un essere<br />

dell’ente, allora risulterà anche improbabile un destino dell’ente nel senso (tanto enfatizzato da Severino) del continuo<br />

venire di esso dal nulla e dissolversi in questo medesimo. L’ente che viene dall’essere a ad esso ritorna ha la consistenza<br />

dell’essere stesso.<br />

Che vuol dire, dunque, il tanto parlare che nel nostro secolo si è venuto facendo intorno all’“oblìo<br />

dell’essere”, alla messa da parte del problema dell’essere e alla assunzione dell’ente come oggetto <strong>della</strong><br />

metafisica? In definitiva, Heidegger (e più recentemente Emanuele Severino) ha inteso rilevare che la realtà,<br />

sulla base dell’eliminazione del problema dell’essere, si è configurata sotto l’aspetto <strong>della</strong> “semplice<br />

presenza”: reale è ciò che di volta in volta si presenta, cioè che diventa oggetto di rappresentazione,<br />

configurandosi come “idea” o come “cosa” (che io immediatamente percepisco) o come figura ri<strong>cor</strong>data o<br />

pensata, e così via. Il reale, cioè, non ha, da questo punto di vista, un “essere” stabile, definitivo, permanente.<br />

Del reale non si cerca l’essere, ciò che, cioè, lo costituisce in una identità permanente, bensì si cercano le varie<br />

forme del suo apparire. Per Parmenide, l’essere “è”, mentre gli enti “appaiono”. Al di là dell’apparire,<br />

oc<strong>cor</strong>re tendere a trovare l’essere. Ad esempio, qual è l’essere dell’uomo? Noi dell’uomo conosciamo le<br />

molteplici forme o modalità nelle quali esso si è storicamente attuato; e diciamo pure, ad esempio, che<br />

l’uomo tende a realizzare se stesso e che tutte le particolari modalità di attuazioni sono modalità limitate e<br />

imperfette rispetto all’uomo ideale, oppure all’essere proprio dell’uomo. Le cose sono copie imperfette di un<br />

modello. Il pensiero greco è attraversato da questa tensione. La <strong>filosofia</strong> ha il compito proprio di giungere a<br />

concepire, di ogni cosa, l’essenza immutabile (ad esempio l’essere dell’uomo). L’oblìo dell’essere conduce a<br />

considerare dell’ente non ciò che esso propriamente è, ma i modi del suo essere presente, cioè del suo<br />

apparire. In questo modo emergono le “qualità” dell’ente: così dell’uomo si considera la razionalità, l’abilità<br />

tecnica, la virtù politica, e così via; di volta in volta, l’uomo emerge come portatore di qualità variabili.<br />

Questo vuol dire probabilmente Severino, il quale osserva che l’ente è considerato come qualcosa che viene<br />

dal nulla e al nulla ritorna, senza che abbia una consistenza nella quale permanere.<br />

L’essere è un “indefinibile”: ad esempio, lo spazio è al di là delle maniere determinate in cui esso è stato o<br />

può essere concepito (lo spazio euclideo, quello aristotelico, quello newtoniano, quello kantiano, e così via);<br />

in quanto “in sé”, non è definibile. Esso è il termine di riferimento “ideale” di ogni determinazione: è ciò per<br />

cui quello euclideo e quello aristotelico (e anche quello kantiano) possono essere considerati come modalità<br />

dello spazio. Perciò Platone vide l’essere nell’idea (o archetipo ideale). L’idea non ha una derivazione<br />

empirica, poiché è il presupposto di ogni determinazione reale. Essa non ha neppure una origine e un<br />

termine; né può trapassare in altro: perciò è sempre identica a se stessa. Così noi diciamo che l’essere <strong>della</strong><br />

giustizia è l’idea di giustizia, la quale non è derivata da una qualche realtà particolare (ad esempio il modo in<br />

cui avviene lo scambio in una determinata società), ma è presupposto e condizione di ogni particolare<br />

determinazione che rientri nel termine “giustizia” (ad esempio, un determinato comportamento definito<br />

come tale).<br />

Parmenide vide bene gli attributi dell’essere: ingenerato, immobile, immutabile, continuo, e così via.<br />

Questi attributi si possono attribuire all’essere di ogni ente.<br />

L’oblìo dell’essere si ha allorché non si considera l’essere dell’ente e, piuttosto, si assume l’ente nella sua<br />

determinazione particolare, per ciò che esso si presenta (o si è presentato in una generalità di casi). Così si<br />

finisce per considerare come “giustizia” la pratica dell’equilibrio del dare e dell’avere in una società, senza<br />

tenere conto che questa è una modalità particolare, e che la giustizia in sé è il termine di riferimento ideale di<br />

ogni modalità particolare <strong>della</strong> sua attuazione. La geometria euclidea considera lo spazio euclideo come lo<br />

spazio assoluto; ma la scoperta delle geometrie non euclidee ha dimostrato che non è così. Se si vuole<br />

considerare qualcosa dal punto di vista filosofico (metafisico), bisogna tenere conto dell’essere, non cercando<br />

di definire l’essere stesso, ma orientando la ricerca sull’essere dell’ente in rapporto al senso dell’essere in<br />

generale. Il concetto filosofico deve essere comprensivo rispetto a ogni concetto determinato di cui si<br />

disponga. Se si rinuncia alla metafisica, si considera l’ente nelle sue determinazioni empiriche; e, mentre il<br />

reale è inteso come l’ente determinato, si profila il concetto dell’essere come semplice presenza. L’essere non<br />

può darsi, infatti, che nella “presenza” dell’ente.<br />

Sviluppi dell’eleatismo<br />

I paradossi contro la molteplicità e il movimento di Zenone di Elea<br />

Zenone di Elea è famoso per i suoi argomenti contro la molteplicità e contro il movimento. L’essere è uno e immobile;<br />

molteplicità e movimento appartengono alla sfera dell’esperienza umana e, dunque, al nostro modo di vedere e

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