Storia popolare della filosofia - prova-cor
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equivalesse a poetare e a far musica, ma infine preso dal dubbio si è messo a musicare in modo<br />
vero e proprio. Infatti poetare e far musica è esortare e persuadere, è incantare l’anima (77 e),<br />
filosofare. Incomincia ad apparire l’immagine dell’anima come qualcosa che ha in sé una facoltà<br />
divina, la facoltà dell’incanto e <strong>della</strong> persuasione: e Socrate ne è la figura vivente, l’immagine<br />
dell’anima che distende il suo canto, e quel canto è una manifestazione di gioia, come il canto dei<br />
cigni che prima di morire elevano, appunto, il loro canto più lungo e più bello. 188 Socrate è sereno<br />
davanti alla morte, anzi proprio al punto di morire coglie l’occasione per il suo canto più bello.<br />
L’anima sa che è giunto il momento di sciogliersi dalle catene del <strong>cor</strong>po: chiusa, infatti, essa è nel<br />
carcere <strong>cor</strong>poreo e, in mancanza <strong>della</strong> luce, non vede l’essenza delle cose, la trasparenza<br />
dell’essere (la verità). Bisogna perciò considerare la morte come una liberazione, per cui l’anima,<br />
senza gli impedimenti <strong>cor</strong>porei, potrà tornare a contemplare l’essere degli enti, recuperando quella<br />
conoscenza originaria che essa ha perduto incarnandosi e facendo esperienza del mondo per via<br />
dei sensi. L’anima, in realtà, durante la permanenza nella condizione mondana conserva un vago<br />
ri<strong>cor</strong>do di quella conoscenza e tende a riconquistarla attraverso la ricerca e la riflessione filosofica;<br />
ma non riuscirà a recuperare interamente quella trasparenza che era propria <strong>della</strong> condizione<br />
originaria e solo col suo ritorno alla libertà potrà dirsi pienamente consapevole di ciò che è la<br />
realtà di tutte le cose. Perciò il filosofo attende la morte e saluta con gioia il suo arrivo.<br />
Il dis<strong>cor</strong>so di Socrate suppone l’immortalità dell’anima. Bisogna dimostrare questa<br />
immortalità, osserva Cebète. Due punti devono essere dimostrati: che l’anima, staccandosi dal<br />
<strong>cor</strong>po, non si disperde e vanisce come soffio o fumo; e che conserva potere e intelligenza. Per<br />
dimostrare il primo punto è introdotto l’argomento dei “contrari” (antapodosis), secondo cui esiste<br />
un eterno ri<strong>cor</strong>so di elementi contrari, il dolore e la gioia, il caldo e il freddo, il sonno e la veglia, la<br />
vita e la morte. Dalla morte si genera la vita, e la vita non può generarsi se non da una condizione<br />
che sia anch’essa vita, perché l’essere non può scaturire dal non-essere; l’anima perciò è sempre<br />
vita. Questo argomento si concilia con un certo “antico dis<strong>cor</strong>so” (palaios logos), un’antica<br />
credenza orfica, per cui “nell’Ade sono le anime degli uomini morti” (70 e). Dunque l’anima è<br />
immortale: Ma non solo: essa reca in sé la conoscenza vera che riguarda le essenze immutabili.<br />
Infatti noi diciamo delle cose che in sé sono belle, buone: pensiamo perciò la bellezza, la bontà, e<br />
così via tutte le idee. Né queste cose vediamo con gli occhi. Allora come abbiamo di esse nozione?<br />
Perché la conoscenza è per l’anima un ri<strong>cor</strong>dare: conosciamo quelle essenze perché le ri<strong>cor</strong>diamo.<br />
Per esempio, noi vediamo due pietre uguali, due legni uguali: come noi potremmo dire che sono<br />
uguali se non avessimo in noi la nozione dell’eguaglianza, dell’eguale in sé. Questa nozione noi<br />
non ricaviamo dai sensi, perciò la possediamo da sempre, da prima che cominciamo a vedere e<br />
sentire, cioè prima di nascere. Libera dal <strong>cor</strong>po, l’anima ha quella conoscenza; quando s’incarna<br />
perde il possesso <strong>della</strong> verità, per riconquistarlo di nuovo, in un processo che ha fine solo con la<br />
definitiva liberazione dal circolo <strong>della</strong> morte e <strong>della</strong> rinascita. Le anime libere da ogni impurità,<br />
infatti, ritornano al luogo originario dal quale sono partite per intraprendere il viaggio nel mondo.<br />
Tuttavia l’argomento <strong>della</strong> reminiscenza non rende compiuta la dimostrazione dell’immortalità<br />
dell’anima. Il fatto che l’anima abbia conosciuto le idee prima <strong>della</strong> nascita <strong>cor</strong>porea non dimostra<br />
che essa debba continuare a conoscerle dopo la morte. Oc<strong>cor</strong>re perciò una dimostrazione che<br />
segua dalla natura stessa dell’anima. Ritorniamo, dice Socrate, alle idee, alla bellezza in sé, alla<br />
bontà in sé, e così via. E’ chiaro che le idee sono immutabili e indivenibili, non soggette a<br />
trasformazione alcuna, mentre sono le cose soggette a mutamento: queste ultime noi percepiamo<br />
coi sensi, mentre le idee sono oggetto dell’intelletto. Esiste dunque un mondo sensibile delle cose,<br />
soggetto al divenire, e un mondo intelligibile delle idee, non divenibile. A quale di questi due<br />
mondi appartiene l’anima? E’ evidente che essa appartiene al mondo immutabile delle essenze:<br />
dunque è immutabile ed eterna al pari delle idee. Con questo terzo argomento, <strong>della</strong> somiglianza,<br />
può dirsi conclusa la serie delle prove dell’immortalità dell’anima.<br />
Così termina la prima parte del dialogo.Ora nella stanzetta c’è un silenzio stupito. In un angolo<br />
Scimmia e Cebète parlano tra loro. - Che c’è?- chiede allora Socrate – Esponete liberamente i<br />
vostri dubbi. - Scimmia paragona il rapporto tra anima e <strong>cor</strong>po a quello tra armonia e lira:<br />
quando le <strong>cor</strong>de <strong>della</strong> lira si spezzano, anche l’armonia si dissolve: così sembra doversi dire<br />
188 “E gli uomini, per la paura che hanno <strong>della</strong> morte, dicono il falso anche dei cigni; e dicono che, cantando essi il<br />
loro canto di morte, così cantano appunto per il dolore <strong>della</strong> morte: e non pensano che nessun uccello canta quando ha<br />
fame o freddo o altro male patisce; neanche l’usignolo né la rondine né l’upupa, che pur sono gli uccelli dei quali si dice<br />
che cantino per dolore, né i cigni; e anzi questi, credo, come sacri ad Apollo, sono indovini, e presentendo quali beni<br />
troveranno nell’Ade, cantano in quel giorno e fanno allegrezza assai più che negli altri giorni. Ora anch’io credo di<br />
essere compagno di servizio coi cigni e sacro al medesimo dio, e di avere avuto dal dio signore non meno di loro l’arte<br />
<strong>della</strong> divinazione; e perciò anche credo di potermi partire dalla vita con non minore letizia” (84 sgg.).