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Storia popolare della filosofia - prova-cor

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è l’uso del ragionamento, l’analisi coerente delle situazioni che si presentano problematiche e intorno alle<br />

quali si tende a trovare soluzioni che siano soddisfacenti per tutti. 22<br />

Il dialéghein indica un atteggiamento fondamentale dello spirito greco. I dis<strong>cor</strong>si che Omero fa pronunciare<br />

ai suoi personaggi (uomini e dèi) hanno una tale densità argomentativa da costituire dei veri e propri<br />

modelli di oratoria. In essi emerge non solo la forza del ragionamento, ma anche l’armonia <strong>della</strong> forma: così<br />

ogni situazione, trasferita sul piano <strong>della</strong> parola, assumeva già i caratteri <strong>della</strong> composizione armonica.<br />

Non è, perciò, un caso che il dialéghein assume, infine, nel suo sviluppo più maturo, la forma del dialogos,<br />

che è la forma più appropriata del dis<strong>cor</strong>so filosofico.<br />

Il desiderio di conoscere. Eros, simbolo dell’amore per il sapere<br />

La figura di Eros più significativa è quella tratteggiata da Platone nel Convito. Secondo il mito esposto da Diotima e<br />

riferito da Socrate nel <strong>cor</strong>so <strong>della</strong> molteplice articolazione dei dis<strong>cor</strong>si in onore del dio che simboleggia la potenza<br />

dell’amore, Eros è figlio di “Povertà” e “Ricchezza”, dunque si configura come il demone costituito essenzialmente dalla<br />

irrefrenabile aspirazione a conoscere, a impossessarsi del sapere intorno alle cose del mondo.<br />

“Gli uomini per natura desiderano conoscere”: con questa osservazione si apre la Metafisica di Aristotele,<br />

l’opera fondamentale che è stata dedicata alla scienza filosofica in quanto conoscenza speculativa, costituita<br />

solo attraverso l’attività del puro pensiero. Un tale sapere appartiene alla natura umana, è, cioè, qualcosa che<br />

l’uomo possiede intrinsecamente, non acquista, dunque, dall’esterno, ma viene svolgendo per via<br />

dell’impegno mentale, <strong>della</strong> riflessione e del ragionamento. Questo carattere del sapere filosofico è stato<br />

principalmente messo in rilievo da Platone, per il quale, come vedremo, “conoscere è ri<strong>cor</strong>dare”, cioè il<br />

prodotto di un’attività creativa dello spirito, per il cui svolgimento l’esperienza del mondo è solo<br />

un’occasione. Platone ha simboleggiato questa attitudine (che è una forte spinta interiore) al sapere nella<br />

figura mitica di Eros, figlio di Ricchezza e Povertà, di Possesso e Mancanza, il demone che tende a<br />

conquistare ciò che gli appartiene già per natura e di cui, tuttavia, egli avverte il bisogno. Tale è la natura<br />

“filosofica” dell’uomo: di possedere la conoscenza ma di non averne la consapevolezza. L’uomo “sa” ma non<br />

ha presenti (già dispiegati) i contenuti del suo sapere; egli deve via via procedere col pensiero a impadronirsi<br />

di tali contenuti, attraverso un processo di ricerca continua, di costante “ascesi”. Questa è la forma stessa<br />

<strong>della</strong> <strong>filosofia</strong> come sapere generato autonomamente dalla mente umana. Platone opportunamente paragona<br />

questa condizione a quella <strong>della</strong> donna gravida che ha bisogno di qualcuno che l’aiuti a partorire. Socrate è<br />

stato il “filosofo” esemplare, ricco di sapere ma consapevole <strong>della</strong> sua ignoranza e tuttavia capace di aiutare i<br />

suoi interlocutori a conquistare da sé i contenuti <strong>della</strong> conoscenza. Il sapere, in altre parole, è una conquista<br />

umana, qualcosa che appartiene più propriamente alla mente umana e del quale l’uomo deve impossessarsi,<br />

sviluppandolo, generandolo con le sue forze, riuscendo a “riconoscerlo” come il suo patrimonio più<br />

originario. Il sapere è il più significativo prodotto dell’attività spirituale.<br />

La comprensione <strong>della</strong> finitezza umana<br />

I Greci hanno specialmente considerato i limiti dell’esistenza e la realtà del dolore e <strong>della</strong> morte. Si può dire che la<br />

loro concezione <strong>della</strong> vita sia attraversata da una nota di pessimismo, espressa dalla celebre constatazione che la cosa<br />

migliore per l’uomo fosse il non nascere, evitando così la serie delle sofferenze a cui inevitabilmente ognuno appare<br />

esposto inspiegabilmente per un motivo che rimane misterioso, in quanto racchiuso nei decreti del Destino che tiene<br />

unite tutte le cose. Storicamente i Greci sostennero vicende particolarmente connesse all’imprevedibilità degli eventi: al<br />

contrario dei popoli dell’Oriente, piuttosto stabilmente insediati dei loro territori e legati a istituzioni antiche e destinate<br />

a conservarsi immutabili nei secoli, i Greci vissero in ambienti esposti ai pericoli del mutamento, a muove invasioni,<br />

alla necessità di difendere con le armi le loro città e le loro istituzioni. Essi ebbero specialmente l’esperienza <strong>della</strong><br />

precarietà di ogni forma in cui si declina l’esistenza, dunque si trovarono nella condizione di dovere lottare per vincere<br />

lo stesso Destino. Questa consapevolezza <strong>della</strong> finitudine attraversa l’intera storia <strong>della</strong> riflessione sull’uomo.<br />

22 Omero usa questo verbo per indicare il ragionamento interiore mediante il quale Ulisse medita sulla sua situazione,<br />

al fine di discernere quale fosse la decisione migliore da prendere, nel momento in cui l’eroe, rimasto solo nel campo,<br />

dopo che gli Achei si sono dati alla fuga, delibera di restare al suo posto, mentre il combattimento infuria (Iliade, XI,<br />

407: allà ti tauta philos dielexato thymòs;, “ma perché il cuore amico esamina queste cose?”).

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