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Storia popolare della filosofia - prova-cor

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C) Stratone (di Lampsaco, discepolo e successore di Teofrasto nella direzione del Liceo) accentuò la<br />

tendenza al naturalismo materialistico. 415<br />

I successivi rappresentanti <strong>della</strong> scuola hanno scarso rilievo e infine il lavoro che vi si svolse riguardò<br />

specialmente l’ordinamento e la pubblicazione delle opere di Aristotele: in questo campo fondamentale è<br />

stata l’opera di Andronico di Rodi (tra il 70 e il 50 a. C.). Nel I e II secolo d. C. si sviluppò l’opera dei<br />

commentatori: il più notevole commento è quello di Alessandro d’Afrodisia:<br />

L’epicureismo<br />

Il compito <strong>della</strong> <strong>filosofia</strong>, per Epicuro, 416 è quello di condurre l’uomo alla felicità, liberandolo, in primo luogo, dalla<br />

paura degli dèi <strong>della</strong> morte, nonché dalle passioni e dalle cure <strong>della</strong> vita, riportandolo, così, a una condizione d’esistenza<br />

serena, confortata dai piaceri stabili e dalle gioie dell’amicizia. Tutti i fenomeni e gli accadimenti sono processi di<br />

aggregazione e disgregazione degli atomi, che sono l’unica realtà esistente. Gli dèi hanno una natura propria, tale da<br />

escluderli interamente dalle vicende di continua trasformazione <strong>della</strong> materia e da assicurare ad essi una condizione di<br />

beatitudine e di indifferenza, in zone che si estendono tra gli universi fisici e che non interferiscono con essi.<br />

Il compito <strong>della</strong> <strong>filosofia</strong><br />

La <strong>filosofia</strong> è la via che conduce alla felicità: infatti, per Epicuro, prima condizione per conseguire una vita<br />

felice è la liberazione dalle paure indotte dalle false credenze negli dèi avversi e nelle pene riservate dopo la<br />

morte. La conoscenza è vista nella sua portata liberatrice: essa con<strong>cor</strong>re a liberare l’uomo dalle passioni, dai<br />

turbamenti e dalle paure. 417 La conoscenza si presenta, dunque, come il quadrifarmaco che guarisce dai<br />

quattro fondamentali tipi di errori, che sono fonte di inquietudine e di angoscia. In primo luogo, essa<br />

insegna che non bisogna avere nessun timore degli dèi: la divinità, infatti, è “in<strong>cor</strong>ruttibile e beata”, 418 estranea<br />

a “faccende, cure, ire e benevolenze” 419 ; in secondo luogo non bisogna avere nessuna paura <strong>della</strong> morte. 420<br />

oratore che non esiste affatto l’anima e che questo è un nome del tutto vuoto, e che è vano parlare d’animali, perché non<br />

esiste animo o anima né nell’uomo né nelle bestie. Tutta quella forza, per cui operiamo e sentiamo alcunché, è<br />

ugualmente diffusa in tutti i <strong>cor</strong>pi viventi, e non è separabile dal <strong>cor</strong>po, come quella che non esiste e non è altro che il<br />

<strong>cor</strong>po unico e semplice, configurato per modo, da aver forza e sensibilità per temperamento naturale”.<br />

415 “Stratone, detto il fisico, crede che tutta la forza divina sia collocata nella natura e ha in sé le cause <strong>della</strong><br />

generazione, dell’accrescimento e <strong>della</strong> diminuzione, ma sia priva di ogni coscienza e figura” (Cicerone, De natura<br />

deorum, I, 35). “Egli rifiuta di servirsi dell’opera degli dèi per fabbricare il mondo […]. Qualsiasi cosa esista o nasca<br />

insegna che è o è stata fatta dai pesi e moti naturali” (Cicerone, Acad., II, 121). Anche gli atti dell’anima<br />

(dell’intelletto) per Stratone sono movimenti, poiché “sempre nell’atto del pensare come del vedere e udire e operare si<br />

ha un movimento” (Simplicio, Phys., 965, 7). L’anima si muove da sé e i suoi atti sono forme di movimento.<br />

416 Epicuro, di Samo, scolaro del democriteo Nausifone e del platonico Panfilo, fondò la sua scuola ad Atene nel 306<br />

a. C., esercitando, quindi, un grande ascendente sui discepoli, specialmente per il modello di vita serena e di saggezza<br />

che egli riuscì a incarnare. Dei circa 300 scritti che gli sono attribuiti a noi restano le Lettere, il Testamento e le<br />

Massime capitali (conservate da Diogene Laerzio), frammenti dell’opera Sulla natura, estratti dai papiri di Ercolano, le<br />

sentenze del “Florilegio vaticano” e pochi altri frammenti. Alla scuola epicurea, che si protrasse fino al IV secolo d.<br />

C..; appartennero Filodemo di Gadara (I secolo a. C.) e Diogene di Encanda (200 d. C.). Ma tra i seguaci di Epicureo il<br />

più famoso è indubbiamente Lucrezio, che nel suo poema De rerum natura ha dato a quella dottrina una sublime veste<br />

poetica. Per Lucrezio, Epicureo è il grande scopritore dei miseri <strong>della</strong> natura, colui che con la sua mente è riuscito a<br />

“infrangere per primo i serrati baluardi delle porte <strong>della</strong> natura” e “riuscì a per<strong>cor</strong>rere lontano le fiammanti mura del<br />

mondo e tutto l’infinito con la mente e con l’animo; onde a noi vittorioso egli riporta che cosa possa nascere e che cosa<br />

non possa, e per quale ragione a ciascun essere spetti infine limitato potere e un termine piantano nella profondità delle<br />

cose” (De rerum natura, I, 56-79).<br />

417 Cfr. Epistola a Pitocce, 85, 87. “Se non ci turbasse il pensiero delle cose celesti e quello che la morte sia qualcosa<br />

per noi e il non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno <strong>della</strong> scienza <strong>della</strong> natura” (Massime<br />

capitali, 11). “Non può sciogliere la paura per ciò che ci sta più a cuore chi non sappia qual è la natura del tutto e stia<br />

coll’ansia delle favole mitiche. Sicché non si può senza la scienza <strong>della</strong> natura godere piaceri schietti” (b., 12).<br />

418 Epistola a Meneceo, 123.<br />

419 Epistola a Erodoto, 177. “L’essere beato e immobile non ha per sé né porta ad altri molestie, né è posseduto da ire<br />

e benevolenze; ché ogni cosa di tal genere appartiene al debole” (Massime capitali, 1).<br />

420 “Avvezzati a pensare che nulla è per noi la morte; perché ogni bene e molestia è nel senso, e la morte è privazione<br />

di senso […[. Il più orrendo dei mali, dunque, la morte, è nulla per noi; e quando la morte c’è, allora non eistiamo noi<br />

[…]. Sicché è sciocco chi dice di temere la morte, non perché sopraggiungendo gli porterà dolore, ma perché la

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