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Storia popolare della filosofia - prova-cor

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esso è uno e nella sua totalità copre i molti, in modo da essere tutto su ciascuno; il che, invece, appare<br />

impossibile, perché solo una parte del velo copre ciascun uomo. Ne deriva che “anche i generi come tali sono<br />

divisibili e ciò che ne partecipa, partecipa d’una parte di essi e non più il genere sarà tutto in ciascuno, ma<br />

una parte per ciascuno” (131 c). Se la partecipazione investe la totalità dell’idea, questa, pur essendo una e<br />

semplice, risulta immanente a una molteplicità di cose diverse. Se, invece, la cosa non assorbe che una parte<br />

dell’idea, questa perde la sua semplicità assoluta. In tal modo è sviluppata la prima critica <strong>della</strong> dottrina <strong>della</strong><br />

partecipazione delle cose alle idee. La partecipazione non può essere intesa né come partecipazione <strong>della</strong><br />

cosa all’idea nella sua totalità, né a una parte dell’idea. Se diciamo che l’idea, ad esempio, è la forma unica<br />

sotto la quale si raggruppano più uomini simili, oc<strong>cor</strong>re che per riunire una determinata qualità vi sia una<br />

determinata idea, e così via per riunire le varie qualità. In tal modo in<strong>cor</strong>reremo in quella difficoltà del “terzo<br />

uomo”, che Aristotele poi considererà come il motivo fondamentale di critica dell’intera dottrina delle idee.<br />

Questa è la seconda difficoltà messa in rilievo da Parmenide. Come terza difficoltà abbiamo che le idee non<br />

possono essere intese come pensieri. Se consideriamo l’idea come semplice concetto (noèhma), esistente soltanto<br />

nelle nostre menti, ci imbatteremmo in nuove difficoltà: o, per effetto <strong>della</strong> partecipazione al concetto, tutto<br />

diventa pensiero oppure, al contrario, nulla è pensiero, non essendo il concetto stesso. Una quarta difficoltà si<br />

ha allorché si introducono le idee come modelli da imitare. Infatti, se l’idea è un “modello” e la cosa sensibile<br />

una “copia”, in modo che la partecipazione sia intesa come “imitazione”, allora si ha che o l’idea cessa di<br />

essere un assoluto o si ricade nelle difficoltà dell’argomento del “terzo uomo”. Una quinta difficoltà si ha<br />

allorché le idee e le cose sensibili sono poste su due piani paralleli e fra loro non comunicanti. Le idee sarebbero del<br />

tutto in conoscibili per l’uomo e le cose sensibili sarebbero del tutto in conoscibili per la divinità. Se le idee<br />

sono oggetti di conoscenza, sono relative a noi, non sono più in sé. E se sono in sé e relative solo le une alle<br />

altre, allora il mondo delle idee appare come un doppione superfluo del mondo sensibile; e la scienza delle<br />

idee, sola adeguata a una realtà in sé, apparterrebbe solo a Dio, il quale, chiuso così in una sfera eterogenea<br />

alla natura, sarebbe altrettanto inconoscibile per noi quanto noi per lui. 196 La dottrina eleatica dell’uno e dei<br />

molti serve a Platone a sviluppare, sul piano dialettico, il problema del rapporto tra il mondo delle idee<br />

(“l’Uno”) e il mondo sensibile (i “molti”). Viene, perciò, sviluppata una rigorosa analisi dialettica, condotta<br />

secondo il metodo per ipotesi: fatta, cioè, una ipotesi, si esaminano le conseguenze non solo in rapporto alla<br />

sua affermazione ma anche in rapporto alla sua negazione, e non solo rispetto a se stessa ma anche rispetto<br />

agli altri elementi <strong>della</strong> realtà, presi per sé e presi in relazione tra loro. I ipotesi: “se l’uno è uno”. Se l’uno è<br />

assolutamente uno, esso non ha parti e non è, di conseguenza, un tutto; inoltre non ha né principio né mezzo<br />

né fine; è senza figura: dunque non è in nessun luogo. Infine, non si muove, né modificandosi né<br />

guastandosi; e neppure sta fermo; esso non è identico né a se stesso né ad altri; e neppure diverso da se<br />

stesso o da altro; esso non è né simile né dissimile, né rispetto a se stesso né rispetto ad altro; non è né eguale<br />

né diseguale, allo stesso modo; e neppure più grande e più piccolo. Se l’uno è uno, non partecipa<br />

assolutamente del tempo e di esso non si può dire né che è, né che era, né che sarà; di esso non si potrà dire<br />

nome né ragione, né sarà possibile avere opinione o scienza (137 c-142 a). II ipotesi: “se l’uno è”. Se l’uno è,<br />

esso partecipa all’essere: cioè l’essere e l’uno non sono la medesima realtà; l’essere e l’uno sono solo “parti”<br />

di quella realtà che è l’“uno che è”. Dunque, in tal caso, si deve ammettere che l’uno consta di parti.<br />

Abbiamo di conseguenza una “dualità” all’interno dell’uno che è. Ciò che è uno (l’uno che è) è un tutto ed ha<br />

parti: ma queste due parti fondamentali, l’uno e l’essere, non possono essere intese come assolutamente<br />

separate l’una dall’altra; dobbiamo ammettere, invece, che “ciascuna delle due parti involge sia l’uno sia ciò<br />

che è, e la parte risulta a sua volta almeno di due parti e per lo stesso dis<strong>cor</strong>so sempre così, qualsiasi parte ne<br />

venga ad essere include in sé sempre queste due parti; l’uno infatti sempre ha con sé ciò che è, ciò che è,<br />

sempre, ha con sé l’uno; ed è pertanto necessità che, infinitamente sdoppiandosi, non sia mai uno” (142 e-143<br />

a). L’uno che è, dunque, sarà “infinito quanto al numero”. Dalla dualità, infatti, può essere dedotta tutta la<br />

serie numerica. Dunque l’uno che è è nello stesso tempo uno e molti, tutto e parti, limitato, finito; esso avrà<br />

pertanto principio, mezzo e fine; avrà anche figura; sarà sia in se stesso che in altro da sé; si muoverà e starà<br />

fermo; sarà identico e diverso, sia rispetto a se stesso che rispetto ad altro; sarà anche simile e dissimile sia<br />

196 “Non c’è traccia, tuttavia, di questa separazione totale nei precedenti dialoghi di Platone: anzi due dottrine<br />

fondamentali la escludono. In primo luogo la dottrina dell’anamnesi la quale implica che l’anima è in rapporto con la<br />

totalità dell’essere, con la quale è congenere. In secondo luogo, la dottrina delle idee come causa del mondo naturale.<br />

Platone quindi non combatte nel Parmenide un caposaldo <strong>della</strong> sua dottrina delle idee, come abitualmente si ritiene; ma<br />

esclude una interpretazione che la renderebbe impossibile. Egli tuttavia è consapevole a questo punto, che un ulteriore<br />

approfondimento <strong>della</strong> dottrina è indispensabile per ciò che riguarda il rapporto del mondo oggettivo delle idee col<br />

soggetto umano e col mondo umano in generale (uomo e mondo sensibile). E nel Parmenide prospetta tutte le possibili<br />

soluzioni di questo problema, sviluppando ciascuna di desse fino alle estreme conseguenze, in modo che ne risulti la<br />

consistenza logica o la contraddittorietà” (N. Abbagnano, pp. 97-98).

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