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S EVERINO B ERTINI<br />

et per li animali» che provenivano dal contado. Il primo carico di pane<br />

che entrò all’interno delle mura «fo uno cavalo cargo qual fo elemosinato<br />

et fo adì 8 avost 1577, et adì 9 avost ge ne fo menato una nevaza<br />

piena sum un caro de Iacomo Romano» che lui stesso aveva fatto con<br />

Faustino Vertua, entrambi prestinai, a Castenedolo 3 .<br />

Molti mulini venivano chiusi per il pericolo di contagio. Durante la peste<br />

del 1479 essendo «tutti li molini de la cittade et anche de fora su li<br />

fiumi tutti infettati», la città veniva rifornita con la farina che i cittadini<br />

spedivano dalle loro ville di campagna, e con questa si faceva il pane<br />

da dare ai poveri e ai sequestrati in casa per sospetto di peste. Superata<br />

la crisi le farine vennero pagate ai cittadini dalla comunità, eccetto le<br />

elargizioni dei conti Gambara e le elemosine di poche altre persone 4 . Addirittura<br />

si credeva che il pane stesso fosse un veicolo della peste e se<br />

fosse stato toccato da una persona infetta avrebbe potuto trasmettere il<br />

morbo ad una persona sana 5 .<br />

Infine molti mulini venivano lasciati in stato di abbandono perché il calo<br />

demografico non li rendeva più indispensabili o perché la mancanza di risorse<br />

economiche causa pestis ne impediva una corretta manutenzione.<br />

La stretta connessione tra attività molitoria, più o meno intensa, e stato<br />

di salute delle comunità emergeva sempre in periodi economicamente critici.<br />

La povertà e l’indigenza non potevano certo favorire, ma paralizzavano<br />

qualsiasi attività umana. Per evitare il tracollo economico, i Comuni<br />

ricorrevano, nel Seicento, ad espedienti come la costituzione di censi consegnativi<br />

annui con cui, in cambio dei frutti di un terreno o di un opificio,<br />

come poteva essere un mulino, ricevevano una determinata somma di denaro<br />

a interesse. Il problema è che riuscivano a riscattare i censi solo<br />

3 Cfr. I diari dei Pluda di Castenedolo, in P. GUERRINI, Cronache bresciane inedite dei secoli XV-<br />

XIX, vol. II, «Brixia Sacra», Brescia 1922, p. 349. Lo stesso episodio viene ricordato dal<br />

Robacciolo in questi termini: «Fu così grande questa calamità et flagello che morsero<br />

tutti li fornari della città, né vi era chi cocesse il pane, né pure chi lo facesse talmente che<br />

furno sforzati li Signori Governatori mandar a Santa Euphemia et Castenedolo et altre<br />

terre vicine a far fare del pane et condurlo alle porte della città con li carri et farlo poi dispensare<br />

alli bisognosi, talmente che si stavano tante famiglie doi et trei giorni intieri che<br />

non potevano haver pane per mangiar» (cfr. La pestilenza del 1577 nella relazione del medico<br />

Francesco Robacciolo, in GUERRINI, Cronache bresciane, vol. II, pp. 205-206).<br />

4 Cfr. Cronaca del notaio Iacopo Melga, in GUERRINI, Cronache bresciane, vol. I, p. 27.<br />

5 Cfr. P. BELLINTANI, Dialogo della peste, a cura di E. Paccagnini, Milano 2001, p. 164.

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