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<strong>Porphyra</strong> Anno IV, numero IX, Maggio 2007<br />
“L’età macedone: dotti, militari, patriarchi”<br />
rimaneva ancora presente in quest’era di oscurità e l’imperatore<br />
aveva stretti rapporti con l’aristocrazia romana. Allora Nicola<br />
scrisse a papa Giovanni X (914-928), personalità di tempra<br />
degna di ben altra epoca, chiedendogli di aderire all’universale<br />
condanna della tetragamia. Naturalmente il fiero pontefice, uso a<br />
combattere contro i Saraceni in prima persona, non gli diede<br />
risposta. Allora il patriarca gli riscrisse, perché considerasse il<br />
decreto di Sergio III sul quarto matrimonio come una semplice<br />
dispensa, ma neanche questa missiva ebbe risposta. Una terza<br />
dello stesso tenore fu egualmente ignorata e solo una quarta,<br />
senza condizioni, ottenne il riconoscimento papale agli atti del<br />
concilio di unione. Anche se Nicola finse che Roma avesse<br />
accettato la sua dottrina rigorista, di fatto Giovanni riconobbe<br />
solo la particolare impostazione giuridica greca. 56<br />
Fino alla fine dei suoi giorni Nicola continuò a governare<br />
la chiesa imperiale d’intesa con Romano I, con grande prestigio.<br />
Scomparso il patriarca nel 925, l’imperatore chiuse un’epoca di<br />
splendore, che era stata anche la propria, con atti sconsiderati<br />
che alla fine coincisero anche con la sua caduta.<br />
Romano Lecapeno era aureolato dal prestigio del<br />
restauratore dell’unità ecclesiastica, in Oriente e in Occidente,<br />
ma l’ambizione di emulare Basilio e Leone, nel tentativo di fare<br />
della propria famiglia la nuova stirpe porporata, lo spinse ad un<br />
passo falso con la chiesa che rivelò la sua vera natura di<br />
agnostico.<br />
Il suo disegno era di insediare sul trono patriarcale il<br />
figlio Teofilatto. Perciò alla morte di Nicola intronizzò dapprima<br />
Stefano II (925-928) e Trifone (928-931), che tennero<br />
praticamente in caldo la sedia per suo figlio, e poi questi, a soli<br />
sedici anni (933-956). Questo atto cesaropapista senza<br />
precedenti fu un duro colpo per Bisanzio, che oppose una certa<br />
resistenza. L’imperatore decise di superarla chiedendo aiuto<br />
all’unica istanza superiore evidentemente ancora una volta<br />
riconosciuta: Roma. Purtroppo alla Sede di Pietro difettava il<br />
decoro canonico e i tempi di Niccolò I e dello stesso Giovanni X<br />
erano trascorsi. Questi era stato deposto da una congiura ordita<br />
dalla senatrice Marozia (†dopo il 932), figlia di Teofilatto ed<br />
erede della sua potenza, impensierita dalla sempre maggiore<br />
intraprendenza politica del papa, che pure doveva a suo padre il<br />
Sacro Soglio. Per stornare da Roma – ossia dalla propria<br />
famiglia – la minaccia di una restaurazione imperiale mediante<br />
l’incoronazione di Berengario I, Marozia aveva cacciato<br />
Giovanni, lo aveva sostituito con Leone VI (928) e poi lo aveva<br />
fatto giustiziare in Castel Sant’Angelo. La senatrice mirava<br />
anch’essa ad insediare sul trono papale il figlio Giovanni e vi<br />
riuscì dopo il breve regno di Stefano VI (929-931). In un simile<br />
frangente, arrivarono a Roma i legati di Romano I e non<br />
meraviglia che Giovanni XI (931-935/36) si dichiarò disposto a<br />
sanare l’illegittimità canonica di Teofilatto, visto che era simile<br />
56 GRUMEL, Reg., nn. 671, 675, 711, 712.<br />
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Rivista online a cura dell’Associazione Culturale Bisanzio